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Gli ottant’anni di Roberto Vecchioni. “Il figlio che ho perso lo sento dentro fortissimo”

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Il grande Roberto Vecchioni compie ottant’anni. Il paroliere amato dal pubblico italiano, autore di brani indimenticabili come “Sogna ragazzo sogna”, “Samarcanda”, “Luci a San Siro”, “Chiamami ancora amore”, è nato in Brianza il 25 giugno 1943. Oggi, per festeggiare questo compleanno speciale, Vecchioni si è raccontato a Walter Veltroni in un lungo dialogo per il Corriere della Sera.

L’età tonda, gli ottanta, per Vecchioni non sono un traguardo speciale, ma una tappa della vita uguale alle altre. “Io credo che sia un’età assolutamente uguale a tante altre. Il tempo ha due funzioni: una esterna, che ci debilita o ci opprime. È come scalare ogni giorno una montagna tremenda: è il nostro fisico. Poi c’è l’altra, con Bergson potremmo dire che è l’interiorità di ciascuno di noi. E questa stagione, che riflette il tempo della coscienza, ha poche variazioni. Magari ha slittamenti intellettuali, ideologici, ma la sua natura, dai vent’anni in poi, non si riduce. Anzi, aumenta ogni ora. È un tempo della vita di cui ti sai appropriare. Si è capaci di custodirlo, di assaporarlo con il pensiero. Mentre il destino ha un peso rilevante nella vita fisica, in quella tua coscienza conta ben poco. È proprio la tua scelta che vince, il libero arbitrio del tuo ragionare e delle tue decisioni”. 

Vecchioni, poi, per la prima volta ha parlato di suo figlio Arrigo, morto a trentasei anni due mesi fa. La sua morte, dice Vecchioni, rappresenta una cesura nella sua vita: un prima e un dopo. 

“Una cesura tra una vita e un’altra, lo è stato ancora di più per mia moglie. Non l’ho presa come un’ingiustizia. Questo no, assolutamente no. Mi viene in mente Eschilo che diceva: si impara soffrendo. Forse dalla felicità non si impara un cazzo. Si impara solo soffreddo, sperando di tornare alla felicità. È stato il crollo del mondo, dell’universo, ma non di certezze e di ideali. E poi lo sento dentro fortissimo, mio figlio. Lo sento intensamente, Arrigo, me lo rivedo dentro continuamente. Lui era bipolare, ho una metafora: un giorno, tornando dall’ospedale vicino Piacenza dove lui andava a fare terapia, abbiamo preso la Statale per andare a Desenzano ed era piena di autovelox. Gli ho detto “Facciamo una cosa: tu guida, passa, ogni volta che c’è un autovelox te lo dico e tu rallenti”. Abbiamo fatto questa strada di corsa e sembrava la vita, proprio. Corsa, corsa corsa e ad ogni autovelox lo fermavo. Quando siamo arrivati lui mi ha abbracciato e mi ha detto: “Li abbiamo fottuti tutti, papà”. E invece un autovelox ci aveva beccati. Ho tentato di dire: “Non è colpa sua, ma mia, guidavo io”. “Eh no…” hanno risposto. “… abbiamo visto, prendiamo lui”». Questa è la morte di mio figlio: gli autovelox della vita”. 

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