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Da Barcellona a Mattinata, ecco perché ho deciso di lavorare in smart working in un borgo di 6000 abitanti

Ci chiamano precari, ma è solo il vento che ci soffia dentro

Si dice che quando la nostalgia (canaglia) inizia a bussare alla tua porta l’unica soluzione è praticare gratitudine.

Nessuno ti dice però che quando ti innamori di un luogo, lasciarlo è la parte più dura.

Ne ho fatte tante di despedide: Bologna, Barcellona, Venezia, Roma, Foggia. Tutte hanno avuto un sapore simile, accompagnate da un cielo grigio e una pioggerellina costante.

Ricordo perfettamente il giorno in cui ho dovuto lasciare Barcellona: ero su una nave, mi aspettavano 24 ore a dondolare nei ricordi su sfondo color mare. La vedevo lì che si allontanava lenta, inesorabile, davanti a me. E con essa tutta la felicità che aveva saputo creare e custodire per 8 mesi.

Qualcuno ci chiama “nomadi digitali”: nuovi personaggi di una storia dove il principale protagonista è un Mac e il suo aiutante, la connessione ad internet. Figli di una generazione stabile che ha saputo donarci le gambe per camminare nell’instabilità. Sarà questo continuo vagare, questo vento che ci soffia dentro, che ci rende così incomprensibili ai nostri genitori che sognano solo di comprarci una casa.

Eppure, la nostra casa non è nella firma di un atto di proprietà, né in una scrivania che pare sempre la stessa. Quella che noi chiamiamo “casa” sono i mille luoghi che ci andiamo a cercare, le stanze da arredare, le fotografie da staccare e riattaccare, gli aerei che ci sono così mancati durante questo anno di fermo.

Eccoci qui, la generazione del continuo movimento, della perenne ricerca, delle storie d’amore che non possiamo accettare perché “chi sa domani dove sarò”. Noi siamo nati con una valigia in mano, figurati se possiamo addomesticare e essere addomesticati.

La sola cosa che sappiamo con certezza è che quando approdiamo in un porto prima o poi lo dovremo lasciare.

5 mesi di #smartworking

Eccomi qui, quindi, a raccontare che cosa significa essere un nomade digitale, o quello che in questo periodo viene chiamato smart o south worker.

Sei mesi fa ho deciso di cambiare vita, luogo, abitudini. Dopo essere rimasta a casa per un anno intero, davanti a una finestra che era sempre la stessa, ho deciso di cambiare il mio panorama.

Ho mandato qualche messaggio, messo tutto in una valigia e una settimana dopo ero in una casa vista mare in un paese di 6000 abitanti.
Lei, la mia città adottiva, si chiama Mattinata ed è appoggiata sul fianco del Gargano.

La conoscevo già, le avevo stretto la mano qualche volta ma il nostro rapporto non si era mai consolidato del tutto.

Vista da lontano, pare una luna in un cielo di ulivi. Dai contorni frastagliati, fatta di strati di palazzi moderni incastonati tra case antiche. D’inverno è smilza, silenziosa, semivuota; d’estate diventa abbondante, colorata e rumorosa.

Quando ti trasferisci in un piccolo paese si nota subito che sei “straniero”. Non sei sicuramente un turista: perché quelli si riconoscono subito, per lo più sono biondi e girano in sandali. Né sei un ospite, magari un parente, di un paesano, perché giri quasi sempre senza compagnia.
“E allora chi è?” — iniziano a vociare.

Così quando vai a comprare il pane per 2 volte di fila ricevi i primi:
– “Non sei di qui, vero?”
– “No, mi sono trasferita da poco.”
– “E ti piace vivere qui?
– “Molto, sembra un paradiso.”

Dopo un mese, arrivano i primi “Buongiorno Cara”, “Come hai detto che ti chiami?” “Ma la prossima volta se sei lontana, ti porto io la spesa”. Riconosci i sorrisi dagli occhi, inizi a salutare le prime persone con la mano, ti appunti mentalmente quali sono i tuoi angoli preferiti, quelli da presentare ai pochi che ti verranno a trovare.

Dopo il secondo mese nessuno si meraviglia più del perché hai sempre l’Iphone in mano per fotografare ogni angolo della città.

Dal terzo mese in poi, le relazioni iniziano a farsi più strette: “Cos’hai detto che fai?”, “E che vuol dire marketing digitale?” “Ma lo sai che io ho un ristorante e un’azienda agricola che vorrei tanto comunicare?”

Il bello di essere uno smart worker è che il valore del tuo lavoro è inversamente proporzionale al numero di abitanti di un posto.

Meno è popolato più puoi fare la differenza con il tuo saper fare.

É per questo, però, che non bisogna mai lasciare un cittadino temporaneo nelle pareti di casa. Affinché nuove competenze possano circolare a beneficio di tutti, i borghi, i paesi, i piccoli villaggi che ospitano i nomadi digitali devono creare delle piazze comuni dove il sapere possa arricchire, seminare, far crescere. I coworking in questo senso sono una vera benedizione, attraendo e catalizzando il talento di molti (vedi il figlio di Tony augello, Artefacendo a San Giovanni)

Il quarto mese inizi a incontrare persone con la tua stessa visione e a mettere in rete saperi e visioni. É così che ho incontrato Michele, il sindaco del mio paese adottivo. Con lui ho riscoperto cosa vuol dire “parlare meno e fare di più. Sempre per la comunità”
Un NOI invece che un IO fa tutta la differenza del mondo nel successo di un’impresa. Quando fai politica, lavori per il primo e metti da parte il secondo. In caso contrario non lascerai segni del tuo passaggio, se non qualche macchia, magari di corruzione, come quelle che stiamo cercando di pulire a Foggia.

Poi ho trovato Massimo, che con il suo Anima Living Network, ha dato un nome a quello che io stavo vivendo sulla mia pelle: scegli un piccolo paese, lavora dove vuoi, metti in rete il tuo sapere, fai crescere il territorio che ti ospita. Lo smart working può cambiare il volto di piccoli borghi, creando una nuova forma di cittadinanza temporanea, che è molto di più di un turismo stagionale.

Al quinto mese è tempo di andare.

“E quando l’ora della partenza fu vicina:
“Ah!” disse la volpe, “… piangerò’”.
“La colpa e’ tua”, disse il piccolo principe, “io, non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…”
“E’ vero”, disse la volpe.
“Ma piangerai!” disse il piccolo principe.
“E’ certo”, disse la volpe.
“Ma allora che ci guadagni?”
“Ci guadagno”, disse la volpe, “il colore del grano”.

Oltre lo smart working

Creare legami è la gioia più grande che puoi trovare in un posto chiamato casa.
Forse sono proprio i legami che la fanno diventare tale.

Così arriva il momento di salutare.
I luoghi: le strade tra i campi che hai scoperto per caso; gli ulivi centenari che paiono innamorati attorcigliati, la terrazza che ha ospitato le tue lacrime e i tuoi sorrisi, i colori del tramonto, con il cielo sereno e con il cielo in tempesta, il cane che ormai non ti abbaia più ma ti saluta.

Le persone:
Raffaele, che giorno dopo giorno è diventato sempre meno il mio barista e sempre più il mio angelo custode.

Matteo, incontrato per caso a colazione, mentre chiamava una scuola di coaching e parlava di PNL in riva al mare.

Maria e sua cugina, per cui non bastano parole di gratitudine, solo lacrime di commozione per avermi fatto sentire a casa.

Quello che non dicono, è che lo “smart working” non è solo lavoro ma è principalmente vita.

Quella spartita, vissuta, assaporata ogni giorno: nei cartelli scritti a mano, nei vecchietti seduti sui muretti in pietra, nei piatti di alluminio portati di casa in casa, nei panini con il salame dei bambini a merenda, nel loro “giochiamo a un due tre stella” davanti alle porte di pietra bianca, nella semplicità dei rapporti, così sinceri, così preziosi.

Di tutto questo e di molto altro sono grata a te, Mattinata.

Mi hai accolta che avevo un’ala spezzata. Oggi mi hai riportato alla vita.

Tratto da: https://novellarosania.medium.com/perch%C3%A9-ho-deciso-di-vivere-in-un-borgo-di-6000-abitanti-d4f3981fce

Novella Rosania

Marketing Manager con cuore e testa al Sud. Nata in H-Farm, cresciuta in Marketing Arena, temprata nella consulenza strategica per le imprese della mia terra.

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