Curiosità

Il mito del Club Dorothée: il Bim Bum Bam francese

Tra gli anni ’80 e ’90, due universi paralleli facevano sognare i bambini: in Italia Bim Bum Bam, in Francia Club Dorothée.

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Se Bim Bum Bam ha scandito le merende, le risate e le scoperte di un’intera generazione italiana, oltralpe i bambini francesi vivevano la stessa magia con un nome che oggi suona quasi leggendario: Club Dorothée. Erano gli anni in cui la televisione non era solo intrattenimento, ma una compagna quotidiana, un teatro domestico dove il sogno aveva diritto di cittadinanza. Lì, tra sigle, pupazzi e cartoni animati, si formavano sensibilità, fantasia e allegria. Il fenomeno nasce nel settembre del 1987, quando la rete privata francese TF1 affida alla nota cantante Dorothée (pseudonimo di Frédérique Hoschedé) la guida dell’unità “jeunesse”. L’obiettivo è ambizioso: costruire un programma per ragazzi che fosse al tempo stesso educativo, musicale e popolare. Nasce così Club Dorothée, un contenitore che avrebbe cambiato per sempre il modo di guardare i cartoni animati in Francia. Come Bim Bum Bam, anche Club Dorothée aveva un volto familiare, riconoscibile, affettuoso. Accanto a Dorothée lavoravano Jacky, Ariane Carletti, Corbier e Patrick Simpson-Jones: una “famiglia televisiva” che accompagnava i più piccoli con spontaneità e ironia. Anche un mito della canzone italiana fece capolino in una puntata del programma: il grande Bobby Solo, il quale duettò con la stessa Dorothée in uno dei suoi brani più famosi: “Una lacrima sul visto”. Il mercoledì era il giorno forte, con dirette, giochi, sketch e musica dal vivo. Ma la vera rivoluzione stava nel palinsesto: ore e ore di anime giapponesi tradotti e adattati per il pubblico francese. Era la nascita di un ponte culturale invisibile tra l’Europa e il Giappone.

Anime, pop e rivoluzione culturale

La casa di produzione AB Productions, partner di TF1, intuì per prima il potenziale degli anime. A partire dal 1988 cominciò ad acquistare massicciamente diritti da studi come Toei Animation e TMS, portando sugli schermi francesi titoli che avrebbero fatto storia: Ken le Survivant (Ken il guerriero), Les Chevaliers du Zodiaque (I Cavalieri dello Zodiaco), Dragon Ball Z, Ranma ½ e Sailor Moon. Il successo fu immediato. I bambini francesi scoprirono un modo nuovo di raccontare il coraggio, l’amicizia e il sacrificio in maniera lontana dalle convenzioni dei cartoni occidentali. L’impatto fu tale che le serie divennero fenomeni di culto, con merchandising, dischi, fumetti e persino concerti. Il Club Dorothée non era solo un programma, ma un ecosistema pop. C’erano riviste dedicate (Dorothée Magazine), tessere del club, eventi, spettacoli dal vivo. In Francia, guardare Club Dorothée era un rito collettivo: tutti, a scuola o per strada, parlavano degli stessi eroi e delle stesse sigle. In Italia, nel frattempo, Bim Bum Bam continuava a essere la culla dell’immaginario anime, ma con un tono più leggero, più frammentato. Se Mediaset puntava sull’intrattenimento puro, la Francia costruiva un modello più “unitario”, una casa televisiva che abbracciava i suoi piccoli spettatori con continuità e identità.

Polemiche e declino di un mito

Come ogni fenomeno di massa, anche Club Dorothée conobbe la sua stagione di polemiche.
Le associazioni per la protezione dei minori accusarono alcune serie di eccessiva violenza (Ken il guerriero) o di simboli “inappropriati” (Muscleman, ovvero, il titolo francese dell’anime Kinnikuman). Il Conseil supérieur de l’audiovisuel intervenne più volte, e molte puntate vennero censurate o rimontate. Ma, paradossalmente, quelle polemiche contribuirono a cementare il mito, rendendo Club Dorothée un simbolo di libertà televisiva, di un tempo in cui la TV osava ancora mostrare emozioni forti e universi complessi. A metà anni Novanta, però, qualcosa cominciò a incrinarsi. La concorrenza cresceva, i gusti cambiavano, e TF1 decise di ridurre progressivamente gli spazi del programma. Il 30 agosto 1997 andò in onda l’ultima puntata. Si chiudeva un decennio irripetibile. In Francia, come in Italia dopo la fine di Bim Bum Bam (avvenuta nel 2002), la TV dei ragazzi smise di avere un volto umano, una voce riconoscibile, un cuore.

Eredità di due mondi paralleli

Guardando oggi a quel periodo felice, colpisce la somiglianza tra i due format. Entrambi avevano capito che la TV per ragazzi non era solo un contenitore di cartoni, ma un luogo affettivo, una comunità simbolica. In Italia, i bambini correvano a casa per non perdere Bim Bum Bam; in Francia, lo facevano per Club Dorothée. Cambiavano le lingue, le sigle (in realtà le stesse in alcuni casi, ma riadattate alla bisogna), i conduttori, ma il sentimento era lo stesso: appartenenza, condivisione, immaginazione. E forse è proprio questo che oggi manca. Nell’epoca dello streaming e del consumo solitario, quelle trasmissioni rappresentano un’idea perduta di collettività: un tempo in cui sognare insieme era un gesto quotidiano. Molti anni dopo, in Francia, il mito non si è spento: nel 2014 il documentario Génération Club Dorothée ha risvegliato la nostalgia, e nel 2023 il canale Gulli ha lanciato Le grand jeu des années Club Dorothée. Segno che, nonostante tutto, il ricordo continua a brillare. Come accade anche da noi quando si pronunciano, quasi con tenerezza, nomi come Bonolis, Uan, Cristina D’Avena, o il semplice suono magico di Bim Bum Bam.

Una lezione per la TV di oggi

Ripensare a Club Dorothée e Bim Bum Bam significa interrogarsi su cosa abbiamo perso.
Non solo un modo di fare televisione, ma una grammatica dell’infanzia condivisa, dove le storie e i volti diventavano parte del nostro lessico emotivo. Il modello Dorothée insegna che importare anime non basta: bisogna costruire intorno a essi un contesto affettivo, un racconto collettivo. In questo, la Francia fu maestra. Eppure, l’Italia, con la sua ironia, il suo disincanto e la sua musicalità, seppe dare agli stessi cartoni una leggerezza unica, un calore domestico che ancora oggi commuove. Forse, il vero ponte tra Bim Bum Bam e Club Dorothée è proprio questo: aver reso la TV un luogo del cuore, capace di far incontrare mondi lontani e generazioni diverse. E se oggi parliamo di “infanzia televisiva” come di un mito perduto, è perché quei programmi ci hanno insegnato la cosa più semplice e più difficile di tutte: che per sognare basta una sigla, un sorriso, e un pomeriggio qualunque davanti allo schermo.

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