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Quando a Manfredonia fu inventata la gara tra vecchie glorie

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QUANDO A MANFREDONIA FU INVENTATA LA GARA TRA VECCHIE GLORIE

Essendomi congedato mentalmente dalla natia contrada da un pezzo, talora mi sovvengono ahimè ricordi da fare ribollire le già tormentate succlavie. A Manfredonia, porto d’Adriatico più noto per le barche da pesca che per i trofei, il calcio ha sempre avuto il sapore del pane duro e del vino sincero. Nessun primato, se non quello che sopravvive nei ricordi di chi c’era, quando ancora il pallone era di cuoio e il campo odorava di sudore fracido misto a polvere.


Fu così che due uomini diversissimi — il Geometra Ciro Nasuto, fondatore e patriarca del football sipontino, e Francesco Saverio Castriotta, commerciante alla moda nonché finisseur dinoccolato, figlio prediletto del calcio cittadino — decisero di rimettere in moto la memoria.


Un settantenne e un quarantenne: il vecchio architetto della cava Salzano, divenuta Stadio Miramare, e il suo pupillo dal tocco gentile, tradito anni prima dalle congiure di spogliatoio dopo una storica promozione nel 1966/67. Una coppia che il sommo prosatore di Zenone Po’ avrebbe chiamato «polenta e osei»: l’uno concreto e geometrico, l’altro artista e disincantato.


Siamo nel 1978. L’AS Manfredonia barcolla sul ciglio del baratro. Nasuto e Castriotta, incrociatisi per caso in via San Giovanni Bosco, si guardano e decidono: “Facciamo rivivere le glorie”. Una partita tra i vecchi calciatori degli anni cinquanta e sessanta, roba mai vista in Italia. Non un amarcord sterile, ma un rito di resurrezione.


Il Miramare si riempì come non mai: cinquemila anime, dieci milioni di lire d’incasso. Una parte sparì — come sempre, nelle faccende umane — ma sei milioni finirono al club e due all’Ospizio Anna Rizzi. Castriotta, signore del pallone e nello stile, pagò di tasca sua i due mancanti. Il buon Saverio era ed è l’essenza del calcio: generosità, tradimento, redenzione.


In campo sfilò la storia pedatoria di Manfredonia: Carbonara, Macripò, Zendoli, Cola, Livori, Perrucci, Pilla, il gran Cappa, Pasqua, Verrocchio, Caputo, Rosselli. E poi Totaro e Gramazio, il massaggiatore. Dall’altra parte Cisternino, Titta, Di Bari, Ciociola, Riccardi, Salcuni, Di Candia, Grasso, Maurini, Cataleta, Zandri, Salvetti, Conti, Totaro G. Una processione di nomi che per i ragazzini del tempo di allora erano semidei. La direzione amministrativa fu affidata a Filippo Angelillis, un gigante di umanità.


Gran cerimoniere il professor Pizzigallo, che mise in fila i veterani come scolari. Le gambe di Cola non entravano nei pantaloncini, Cappa tratteneva l’ilarità, e con le sue armi abbracciava tutti, Livori e Pilla ridevano: la vita torna lieve quando si rigioca dopo 30 anni e si ritorna a quando se ne aveva venti. Alcuni di loro mangiarono la ricola di Siponto e restarono, altri andarono via ma lasciarono sul “Corso” un pezzo del loro cuore. La governante-cuoca di quei ragazzi arrivò al campo gridando in dialetto: “ddica stanne i figghjie mije!”. E in fondo era proprio così: figli di un’epoca perduta, riconciliati col pallone.


La partita? Una sola rete, o forse dieci, ma l’ultima fu scolpita dal piede di Lalino Caputo. Non serviva altro: il calcio, quando è memoria e poesia, non ha bisogno di marcatori multipli.


Spuntò persino Dario Gay, l’uomo che nel ’54 aveva tradito i sipontini per i rivali di Barletta. Arrivò senza avvisi, letto il trafiletto sulla Gazzetta del Mezzogiorno, prese il treno e venne al Miramare. Forse per chiedere perdono e liberarsi dal senso di colpa. Alcuni rifiutarono l’invito, come Pagni e Poggi, salvo poi pentirsene. Così va la vita, così va il calcio.


Quella domenica, più che una partita, fu un rito collettivo. La città pianse e rise insieme. Il Manfredonia, che negli anni aveva mancato la IV Serie anche per arbitri malandrini, ritrovò se stessa. E se in quel momento di 45 anni fa, fossi stato un po’ più grande, avrei scritto che il pallone, a volte, non rotola per la gloria: rotola per restituire a un popolo la sua dignità e la sua memoria.


Una memoria che purtroppo da noi manca e manca spesso.
Onore al merito a Ciro Nasuto e a Francesco Saverio Castriotta, antesignani di un nuovo modo di intendere il calcio.


Giovanni Ognissanti

NELLA FOTO, CAPITAN SALCUNI CONSEGNA I FIORI A LALINO CAPUTO. SULLA DESTRA SAVERIO CASTRIOTTA

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