Storia

L’anima dei morti: perchè non bisogna temere le tradizioni ma saperle spiegare e tramandare

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‘L’ANIMA DEI MORTI’: PERCHÉ NON BISOGNA TEMERE LE TRADIZIONI MA SAPERLE SPIEGARE E TRAMANDARE.

Ecco: tramandare, tradizione. Questi due termini hanno una radice comune. Derivano dal latino ‘tradĕre’, consegnare, tramandare, appunto.

Tutti noi abbiamo il compito di ‘consegnare’ ai posteri, al futuro, le nostre conoscenze. C’è un altro termine che deriva dalla stessa parola suddetta: tradire. Sì, perché tradire significa consegnare ad altri i segreti e le conoscenze della persona tradita, senza il suo consenso. Quindi, la differenza tra tradire e tramandare dipende solo dal ‘permesso’ che abbiamo di trasmettere al futuro le nostre intuizioni, le nostre nozioni, con consapevolezza. E non è poco.

La differenza sta anche in quella dose di ignoranza, nei confronti dell’ignoto, che spesso pervade i nostri ragionamenti, imprigionati in sovrastrutture mentali da noi stessi costruite. Anche ignoranza e ignoto hanno la stessa radice: ‘mancanza di conoscenza’.

Tutto questo preambolo per introdurre un argomento che in questo periodo dell’anno genera non pochi isterismi, nel bene e nel male. Non parleremo certo di Halloween, l’antica festa celtica di Samhain, il capodanno che separava fondamentalmente l’estate dall’inverno. Oggi, sicuramente, tale ricorrenza ha assunto toni commerciali poco tradizionali, ma proprio perché nessuno poi le cose le spiega e le tramanda a dovere. E dove c’è ignoranza nasce la paura (che alimenta ulteriore ignoranza).

Anche perché, a ben studiare le cose, si scopre che ancora prima che Halloween bussasse alle nostre porte moderne (mai parole furono più consone), nei territori della Daunia e del Gargano avevamo già una tradizione simile, se non addirittura identica, alla celebrazione suddetta: la Questua dei Morti, meglio conosciuta come “L’Anëma d’ li mortë” (l’anima dei morti). Ma procediamo con ordine.

Per non appesantire troppo il post, faremo brevi accenni, partendo dalla nostra terra.

Innanzitutto, in Puglia, come in tutta l’Italia, si pensava che nella notte tra l’1 e il 2 di novembre i morti tornassero nella dimensione terrena, aggirandosi per i paesi e facendo visita alle loro vecchie case.

Scriveva Giuseppe Gigli, nel 1893, relativamente alla Terra d’Otranto: tutti generalmente credono che le anime possano tornare sulla terra. A queste anime la fantasia popolare dà un vestito bianco e una lucerna in mano. Nella notte del 2 novembre, per comune convincimento, le anime dei morti del paese si riuniscono e vengono quaggiù insieme, in lunga fila, a girare sino all’alba, recitando preghiere per le strade e per le campagne. V’è chi giura di aver visto la sacra schiera, che, a guisa di candido serpente, si muove senza emettere alcun chiasso o rumore.

Nella zona di Manfredonia, si pensava che in quella notte le anime dei defunti, vestite di bianco e con una lanterna in mano, si riunissero e girassero in processione fino all’alba, cantando litanie e pregando. “Durante la processione di tanto in tanto alcune anime si staccavano dal corteo ed entravano nelle case”. Per accoglierle, si preparavano cibo e ristoro.

Simili riti di accoglienza erano comuni. Scriveva nel 1893 Andrea Gabrieli: “La notte del 2 novembre, sacra ai morti, s’imbandisce una cena più o meno lauta, secondo il potere della famiglia. Non è lecito toccar nulla delle vivande e delle bevande imbandite, perché destinate unicamente ai morti che, liberi quella notte di uscir dai sepolcri, girano per le case dei parenti”.

Questa la credenza comune. Ma ve n’è pure un’altra. In quella notte, le anime del Purgatorio, in ricompensa delle preci e dei suffragi fatti per loro dai parenti e dagli amici, vengono a benedire la mensa dei cui cibi chi toccherà avrà buona fortuna.

Dunque, cibi per i morti e per i vivi, in rituale “comunione”. Ed è qui tutto il segreto. Ne parleremo alla fine del post.

A Serracapriola, nella notte tra l’1 e il 2 novembre, i fedeli riuniti in chiesa, dopo aver assistito alle funzioni di suffragio per i defunti, mangiavano “le anime dei morti”, cioè noci, nocciole, frutta secca, mandarino. Queste leccornie erano da collegare anche con il rito della “calza”, che dalle nostre parti viene fatta trovare ai bambini non dalla Befana ma dai cari defunti.

Inoltre, il popolo montanaro – scriveva Giovanni Tancredi – nel giorno di Ognissanti, 1º novembre, per divozione alle anime dei morti cuoce grano e granturco, il quale è condito con vino cotto.

E ancora: sempre il Tancredi ricorda poi che “fin verso la fine dell’Ottocento, nella chiesa che frequentava la sua famiglia, erigevano uno scheletro umano dinanzi al quale la gente rimaneva atterrita, avvilita. […] Lo scheletro umano era situato a destra dell’entrata ed era lo spauracchio di noi fanciulli”. Questo succedeva a Monte Sant’Angelo.

Ma torniamo alla tradizione secondo cui sono i morti, nella loro ricorrenza, a portare doni ai bambini. Trattando del folklore di Manfredonia, Vincenzo Gennaro Valente confermava nel 1987 l’usanza, da parte dei bambini, di appendere una calza fatta a mano (a cauzettë) alla testata del letto, o dietro la porta, affinché nella notte i morti la riempissero di doni, consistenti in castagne, frutta secca e fresca, o in tempi più moderni dolci e piccoli giocattoli.

Le calze, come detto, si esponevano la sera del 1° novembre, affinché fungessero al loro scopo nella notte; qualche bambino però tentava un bis: spesso i piccini, racconta Tancredi nel 1938, mettono la calza anche la sera del 2 novembre, però quando il giorno seguente vanno a frugare vi trovano cortecce di frutta, miste a carboni, perché i morti non amano i bambini molto golosi.

A Deliceto, e in altri paesi di Capitanata, molte famiglie cuociono in grosse caldaie notevoli quantità di ceci o di grano, che condiscono col succo degli acini di melagrane, e ne offrono piatti ai poveri, in suffragio delle anime dei defunti. In tale giorno, i garzoni dei calzolai, dei fornai, dei falegnami etc. vanno anch’essi a chiedere dai clienti la mancia in nome dei morti e hanno fichi secchi, mandorle, carrube, noci e così via; lo stesso fanno i contadini, i servi e tutti i dipendenti dalle famiglie signorili; le fidanzate hanno dagli sposi un regaluccio o una provvista di fichi e castagne, e anche i parenti si scambiano doni in tale occasione.

A Cerignola, allo spuntar del giorno, cominciano a girare i poveri e i mendicanti, i quali cercano “l’anemë di muertë”, e depongono in bisacce o canestri quelle provviste che hanno dalle famiglie agiate.

A San Nicandro Garganico, fino a poco tempo fa, nel pomeriggio di Ognissanti i ragazzi, in gruppetti, bussavano alle porte di parenti, conoscenti ed estranei e chiedevano “l’animë i mortë”. Al termine del giro tornavano a casa con tante cose buone: dolciumi, frutta, caramelle e altro. A Manfredonia, il giorno successivo, erano i poveri del paese a fare il giro porta a porta, con la speranza di racimolare qualcosa per sfamarsi. Queste tradizioni sono quasi del tutto scomparse. Ciò che vive ancora è la calza dei morti e la visita ai parenti più stretti, di norma i nonni, per ricevere qualche regalino.

Questa ‘questua dei morti’ la si faceva, anticamente, ‘mascherati’ da una lunga tunica nera con cappuccio, e una tale processione di gente incuteva sicuramente anche un certo timore reverenziale.

Nel paese di Orsara di Puglia, nel subappennino daunio, l’usanza di svuotare le zucche, scolpirle come teschi e illuminarle con le candele, si perde nella notte dei tempi. I vecchi del paese ricordano che già i loro nonni festeggiavano la Vigilia di Ognissanti, decorando le vie del paese con le zucche, qui chiamate ‘coccie priatorje’ (teste del Purgatorio) e accendendo falò di rami di ginestre agli incroci e nelle piazze. Era la festa chiamata ‘fuca cost’.

“È una notte inquieta quella che precede il 2 novembre. Le antiche leggende raccontano che i morti tornano e gli spiriti liberati delle loro catene combattono, tra i palazzi e le case degli uomini, l’eterna battaglia tra il bene e il male. Sono secoli che noi celebriamo con zucche e falò questa notte magica”, raccontano a Orsara.

Le ‘coccie priatorje’, ovverossia le zucche a forma di teschio, vengono messe alle finestre, mentre grandi falò illuminano la notte. Gli scoppiettii dei rami verdi di ginestra, che ardono tra le alte fiamme, spaventano le anime dei peccatori che vagano senza pace tra i vicoli. Le faville incandescenti si sollevano luminose e leggere e consolano le anime del Purgatorio, aiutandole a volare verso il cielo.

Le antiche leggende raccontano che in questa notte di novembre il mondo dei vivi e quello dei morti si incontrano. Gli abitanti di Orsara, custodi di queste salde tradizioni, si radunano in gruppi, per mangiare insieme ciò che viene cucinato sulle braci dei falò ormai spenti. Ma non tutto viene consumato, in modo da lasciare, agli angoli delle strade, vassoi con dolci e vino perché possano rifocillarsi, insieme ai vivi, anche tutte le anime tornate ad aggirarsi silenziose tra le ombre delle chiese e dei palazzi.

Vi ricorda qualcosa, tutto questo?

E cosa andiamo a scoprire, ricercando qua e là? Che tali usanze erano tipiche di tutto il meridione italiano, fino in Sardegna e anche oltre.

A Nuoro, per i Santi si fa “su mortu-mortu”. In questo nome si compendiano i dolciumi usati in tal giorno. Sono i “papassinos”, dolci di uva passa, di mandorle, di noci e di nocciole, riunite da una specie di poltiglia impastata con sapa (mosto cotto) o con acqua zuccherata. Nel giorno dedicato alla commemorazione dei defunti […] i ragazzi, isolati o a gruppi, muniti di sacchetto o sporta, si recano di casa in casa per chiedere “cosa dais as animas?”, cosa date in memoria delle anime buone dei vostri defunti?

In Sicilia, come ci racconta il Pitrè, sono soprattutto i bambini ad aspettare i defunti con emozione, perché, se spaventano, essi sono anche prodighi di doni. Nella tradizione della maggior parte dell’isola, infatti, sono i defunti, e non la Befana o Babbo Natale, a portare i regali ai più piccoli.

E lo stesso troviamo in Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Abruzzo, Marche e oltre. Ma cos’è poi questa “anima dei morti”?

Come nota bene Vladimir Ja. Propp, nella concezione dei popoli antichi la morte non viene intesa come una trasformazione completa dell’essere. Essi credevano che i morti continuassero a vivere sottoterra e avessero su di essa un potere maggiore di quello che aveva l’agricoltore che ci camminava sopra con l’aratro. Dalle viscere della terra i morti potevano inviare un raccolto buono o cattivo, potevano obbligare la terra a dare frutti o a trattenere le sue forze.

Ne consegue che bisogna propiziarsi i defunti, mostrare loro il proprio amore e la propria venerazione. Ma questo è ancora poco: bisogna sostenerli dando loro da mangiare, da bere, e di che scaldarsi; bisogna banchettare con loro, lasciare loro cibo sulle tombe, fare libagioni di vino.

E tutto questo in inverno, quando si spera per i raccolti futuri, quando è anche la Natura a “morire”. Quando i raccolti saranno già cresciuti, non ci si rivolgerà più con la stessa intensità ai morti: o essi avranno compiuto il loro dovere oppure no, e si smetterà di commemorarli fino a quando, ottenuti i frutti della terra e riaffidati a essa i semi, non si ricomincerà a implorarli e a cercare di ottenere nuove fioriture e nuovi raccolti. È nuova vita, perpetuamente rinnovantesi e rigenerantesi, in un eterno ciclo.

Per giunta, le leccornie chieste dai bambini porta a porta (fichi e frutta secca, melagrane, grano cotto etc.) rappresentano il nutrimento stagionale utile, quindi l’anima dei morti per nutrire quella dei vivi, soprattutto dei più giovani.

Perché ‘temere’ tutto questo? Di cosa abbiamo paura? Bisogna ricordare che commemorare i defunti significa anche continuare a tramandare le loro conoscenze passate, spiegandole adeguatamente e non sostituendole con surrogati posticci o con comportamenti bigotti. Tramandare e non tradire.

Archivio di Giovanni BARRELLA (la provenienza delle immagini è indicata eventualmente nelle didascalie).

Parte del testo tratta da: “Halloween, origine, significato e tradizione di una festa antica anche in Italia”, E. Baldini, G. Bellosi, 2015.

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