Storia

La produzione scultorea della Daunia: lo sviluppo di un Ethnos indigeno

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LA PRODUZIONE SCULTOREA DELLA DAUNIA: LO SVILUPPO DI UN ETHNOS INDIGENO.

Come già da noi raccontato tante volte, la Daunia rappresenta uno scrigno inestimabile di arte e storia.

Prendendo spunto da un lavoro di Maria Luisa Nava (Ministero per i Beni e le Attività Culturali), siamo qui a proporvi un tema assai interessante: la particolarità della produzione scultorea indigena dei Dauni.

Vediamone con ordine le peculiarità principali.

Sul promontorio roccioso di Monte Saraceno, a picco sulla baia di Mattinata, si cela una delle più straordinarie testimonianze dell’identità culturale dei Dauni, popolo fiero e raffinato della protostoria pugliese. In un paesaggio che unisce il mare al calcare bianco della pietra garganica, le sculture funerarie recuperate in quest’area raccontano, come un archivio scolpito nella roccia, l’evoluzione di un ethos collettivo – l’ethnos daunio – che si forma, si struttura e infine si stratifica socialmente tra l’XI e il VI secolo a.C.

Tutto comincia tra la fine dell’età del Bronzo e l’alba dell’età del Ferro, quando i primi abitanti di Monte Saraceno scavano nella roccia le loro tombe: profonde cavità troncopiramidali o a sacco, contenenti corredi modesti ma significativi. Le deposizioni sono multiple: adulti, giovani e neonati condividono lo stesso spazio mortuario, spesso con i crani ordinatamente disposti lungo le pareti, segno di un culto familiare fortemente comunitario. La collettività domina, l’individuo si dissolve nel clan.

È in questo contesto che nasce una delle più affascinanti produzioni artistiche indigene dell’Italia preromana: oltre 300 sculture, realizzate in pietra calcarea bianca e suddivise in due grandi classi. Da un lato le enigmatiche forme geometriche, dischi su colonnette – forse scudi, forse simboli ancestrali – che si impongono per numero e frequenza. Dall’altro, le sculture antropomorfe, più rare, con volti stilizzati, enigmatici, spesso sormontati da trecce scolpite che richiamano l’identità femminile o i ruoli rituali. Si tratta di una lingua visiva, che nei secoli si evolve con lentezza e rigore, restando legata all’ambito funerario.

Nel tempo, il repertorio dei corredi si arricchisce: alle fibule e agli spilloni in bronzo si aggiungono le prime armi in ferro, strumenti da taglio e raffinati ornamenti in pasta vitrea. La ceramica si fa più elaborata, compaiono le decorazioni dipinte, le forme biconiche, gli attingitoi rituali. Ma è con la Fase D che qualcosa cambia profondamente. La presenza di stele figurate – scolpite con braccia, collane e fibule – e di scudi multipli nella stessa tomba, lascia intuire la volontà di alcuni clan di differenziarsi, di affermare visivamente il proprio prestigio.

È l’alba di un’aristocrazia. Se fino al VII secolo a.C. la società daunica si fondava sulla famiglia allargata e sull’anonimato dell’individuo nella tomba collettiva, da questo momento si fa strada un’altra idea di potere: quella del capo, del guerriero, della matrona. Le sepolture diventano singole, ricchissime, talvolta spettacolari. E le stele della Piana di Siponto, nel Tavoliere, ne sono la manifestazione più raffinata e solenne.

Realizzate in grandi lastre parallelepipede, completamente decorate sui quattro lati, le stele del Tavoliere sono oltre duemila. Alcune rappresentano guerrieri, con armi, elmi, scudi e corazze incise; altre raffigurano personaggi femminili o di alto rango, con ornamenti raffinati, copricapi elaborati e acconciature scolpite. I dettagli sono minuziosi: le fibule a doppia spirale, le collane a più giri, i cardiophylakes (dischi pettorali di protezione), gli elmi con disco – elementi che raccontano lo status, l’origine e il ruolo del defunto.

Ma ciò che più colpisce è la narrazione per immagini: sulle stele si raccontano scene di vita quotidiana e mitica, dalla tessitura alla pesca, dalla caccia al cervo ai duelli rituali, dalle imbarcazioni solcate sul mare a creature divine o teriomorfe che affiorano dall’immaginario collettivo. Queste non sono semplici decorazioni: sono rappresentazioni di un ‘cursus honorum’, un cammino di vita che si intreccia con la sfera del sacro, celebrando l’ascesa spirituale e politica del defunto.

È un mondo oligarchico, quello che queste sculture ci restituiscono. Una classe dominante che scolpisce il proprio potere nella pietra, trasformando la morte in un monumento alla propria superiorità. L’immagine funebre diventa così simbolo eterno di comando, autorità e distinzione: la stele è l’emblema dell’eroe e del sacerdote, dell’intellettuale e del capo militare.

Tuttavia, come ogni civiltà, anche questa fase aurea conosce il declino. Con l’aprirsi del V secolo a.C., la pressione culturale delle colonie magnogreche e delle società italiche comincia a trasformare l’ethnos daunico. Le stele, un tempo ricchissime di simboli e significati, si svuotano progressivamente, riducendosi a semplici ornamenti formali, lontane dalla profondità simbolica che le aveva animate. L’individuo non è più l’eroe da scolpire, ma un semplice nome da ricordare.

Il linguaggio delle immagini, prima potente e articolato, si riduce a cliché; la ceramica locale cede il passo alle mode greche; l’aristocrazia indigena si dissolve e con essa si spegne una delle voci più originali dell’Italia protostorica.

Con la sua indagine dettagliata e appassionata, Maria Luisa Nava non solo ci restituisce il profilo di una civiltà antica, ma ci guida in un viaggio attraverso il potere delle immagini, capaci di scolpire l’identità di un popolo. Le sculture della Daunia non sono solo pietra: sono storia, mito, religione, e sopra ogni cosa, sono memoria di un mondo scomparso, inciso nella carne viva del Gargano e del Tavoliere.

Archivio e parte delle foto (museo presso il Castello di Manfredonia) di Giovanni BARRELLA.

Fonte e foto reperti: Maria Luisa Nava, Ministero per i Beni e le Attività Culturali, “Le sculture della Daunia e lo sviluppo dell’ethnos indigeno”, San Severo, 2007

GARGANODASCOPRIRE

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