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Casa Sollievo, «Una fabbrica in perenne costruzione»

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Breve conversazione con il presidente, padre Franco Moscone, a pochi giorni dall’intervento alla colonna vertebrale 


«Sto bene, sto meglio, mi sento in ripresa fisica e in una buona situazione». Incontriamo padre Franco Moscone, arcivescovo di Manfredonia Vieste San Giovanni Rotondo e presidente della Fondazione Casa Sollievo della Sofferenza, a pochi giorni dall’intervento al quale si è sottoposto nell’unità di Ortopedia. Si muove ancora lentamente ma ci accoglie con la disponibilità di sempre.

«È stato un intervento complesso e lungo. Mi hanno risistemato la colonna vertebrale, diciamo così. Dell’intervento ricordo poco: di aver riconosciuto il chirurgo, l’anestesista, gli infermieri e tutto il personale della sala operatoria n.3. Poi ricordo una sensazione di freddo dovuta al clima ideale da tenere in sala operatoria, così mi hanno riferito. E poi mi sono risvegliato con gli stessi volti che mi scrutavano, ma erano passate 6 ore».

Il suo primo pensiero nel nostro incontro è rivolgere un caloroso ringraziamento al chirurgo ortopedico, Giuseppe Gorgoglione, e a tutta l’equipe della sala operatoria. «Quando si fanno dei nomi si corre sempre il rischio di non ricordare qualcuno. Sono stati tutti molto premurosi e professionali. Si intuisce una grande competenza in ciò che fanno e nel modo in cui lo fanno. Io mi sono consegnato e affidato con fiducia».

I medici e gli operatori sanitari, nelle omelie e nei discorsi precedenti, padre Franco li ha più volte paragonati al buon samaritano della parabola narrata nel Vangelo secondo Luca. Al centro dei suoi interventi c’era sempre l’esortazione alla misericordia e alla compassione.

«La compassione è dei singoli, è vero. Il buon samaritano infatti è l’unico a soccorrere il malcapitato, il sacerdote e il leviatano lo ignorano. Ma poi l’assistenza diventa corale. Nel testo si fa riferimento alla locanda in cui viene ospitato il passante, percosso e derubato dai briganti. Ecco, Casa Sollievo è come quella locanda, è la Locanda. “Ospedale” e “ospitalità” nascono dallo stesso sostantivo e dallo stesso modo d’essere. Farsi trovare “bene”. Al di là del puro senso del dovere, ci si dovrebbe mettere qualcosa in più e questo non vale solo nel mondo sanitario. Vale in tutti i contesti dove si ha a che fare con le persone. Lavorare in sanità non è facile: vuol dire creare equipe con persone dotate di personale responsabilità, unicità e competenze che sanno tenersi insieme e sanno organizzare le risorse umane, professionali ed economiche».

Poi il riferimento allo stato di salute della Locanda viene da sé. «Casa Sollievo è una locanda, ma è anche una cattedrale perpetua dove ognuno mette la propria vita al servizio dell’umanità fragile, ferita, ammalata. E le cattedrali non si costruiscono in un giorno, hanno dei tempi lunghi sia nella costruzione che nell’assestamento, e nello svolgimento della propria missione. Pensi alle grandi cattedrali che conservano ancora il nome di “fabbrica” (Fabbrica di San Pietro, Fabbrica del Duomo di Milano, ndr). È qualcosa in perenne costruzione. Ecco, Casa Sollievo è come quelle fabbriche, bisogna perennemente occuparsi di continua manutenzione e di piccoli interventi qua e là per svolgere appieno la propria missione».

I suoi famigliari, ai quali padre Franco ha tentato invano di tenere nascosta la notizia dell’intervento, l’hanno saputo e sono arrivati a fargli una breve visita. «È stata una piacevole sorpresa, è stato bello vederli. La vicinanza dei propri cari è medicina in Ospedale. Tornando a quanto abbiamo vissuto in pandemia, mi vengono in mente tutti i divieti che gli Ospedali hanno messo in atto. Erano evidenti le finalità di quelle prescrizioni che vietavano le visite in Ospedale. Ora tutti quegli insegnamenti che la sanità ha imparato, devono diventare tesoro».

Poi un passaggio su un requisito fondamentale dell’ospitalità: l’assistenza spirituale. «Che non va confusa con l’assistenza religiosa, che in questo Ospedale è garantita in maniera eccellente dai frati cappellani e dalle Apostole del Sacro Cuore di Gesù. Io parlo di assistenza spirituale nella sua accezione più ampia. Tutti devono occuparsi dello spirito, del benessere, del pensiero e del cuore di ogni persona, oltre che della loro carne. E questo riguarda, a mio giudizio, anche i laici che prestano il loro servizio professionale qui dentro. Lo spirito è quella parte della vita umana di chi non ha ancora mutato l’esperienza spirituale in una esperienza di fede. Dobbiamo essere vicini anche a loro. Questo vuol dire “vedere Cristo in ogni malato”. Ma, badate bene, prima di divenire una esortazione di Padre Pio, è stato Gesù stesso ad identificarsi negli infermi come riportato nel Vangelo secondo Matteo: […] “ero forestiero e mi avete ospitato, ero nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi” […]».

L’ultimo nostro argomento di discussione è sulla riabilitazione e sul futuro. «Mi sono completamente affidato ai medici e ho voluto credere alla battuta del chirurgo che mi aveva detto: “in due giorni ti metteremo in piedi”. Presa alla lettera la previsione si è avverata, mi sono rimesso subito in piedi ma per camminare bene ci vorrà qualche settimana ancora, riabilitazione compresa. Devo accettare le cose con serenità. Egoisticamente, il mio desiderio più grande è poter tornare a muovermi liberamente ed in autonomia, tornare ad essere autista di me stesso. Ma ho anche imparato che finché sarà necessario dovrò chiedere aiuto, più di quanto non abbia fatto fino ad ora».

L’interazione finale prima dei saluti è un suo invito, accompagnato da un indice che punta verso il tavolo, dove sono in bella mostra biscotti e cioccolate di vario tipo. E io non me lo sono fatto ripetere due volte, ghiotto come sono. 

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