Spettacolo Italia

Licia live action: l’Italia che trasformò un anime in un cult televisivo

Dalla messa in onda di Kiss Me Licia all’esplosione dei quattro live action Fininvest: origini, stagioni, cast e lascito culturale.

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Tra il 1986 e il 1988 la televisione italiana mise in scena una delle operazioni più curiose della sua storia: trasformare un cartone animato giapponese in una fiction popolare “in carne e ossa”. Kiss Me Licia, trasmesso per la prima volta in Italia nel 1985, aveva conquistato un pubblico vastissimo. L’anime — adattamento del manga Ai Shite Knight — raccontava le vicende di Licia, ragazza dolce e romantica, di Mirko, cantante dei Bee Hive, e dei personaggi che orbitavano intorno al Mambo, il locale del padre Marrabbio. Le musiche, le atmosfere e la voce di Cristina D’Avena nelle sigle lo resero un fenomeno nazionale. L’impatto fu tale che Fininvest decise di proseguire la storia in un formato tutto italiano, mantenendo i personaggi, le dinamiche affettive e perfino le voci che gli spettatori avevano imparato a riconoscere. Nasce così una quadrilogia televisiva live actionLove Me Licia (1986), Licia dolce Licia (1987), Teneramente Licia (1987) e Balliamo e cantiamo con Licia (1988) — che diventa presto un simbolo della cultura pop dell’Italia anni Ottanta. Quello che inizialmente poteva sembrare un azzardo produttivo si rivelò invece un successo di pubblico. Le serie si imposero come appuntamento fisso dei pomeriggi di Italia 1, aprendo la strada alla carriera televisiva di molti giovani attori e consolidando definitivamente Cristina D’Avena come icona televisiva nazionale.

L’origine del fenomeno

Ai Shite Knight nasce in Giappone nel 1983 come manga di Kaoru Tada. La serie animata, composta da 42 episodi, viene trasmessa nel 1983-1984 dalla TMS Entertainment. In patria, pur ricevendo apprezzamenti, non ottiene un successo paragonabile a quello che troverà in Italia. Nel 1985 il cartone arriva su Italia 1 col titolo Kiss Me Licia. Il doppiaggio, curato da Merak Film, adatta i dialoghi e introduce sigle italiane cantate da Cristina D’Avena, con testi di Alessandra Valeri Manera e musiche di Giordano Bruno Martelli. L’anime diventa subito un successo, anche per la sua estetica romantica e musicale, vicina alla sensibilità del pubblico italiano del tempo. Licia e Mirko diventano nomi familiari, e i Bee Hive — la band maschile protagonista — vengono percepiti quasi come un vero gruppo musicale. In questo contesto, Fininvest decide di estendere la storia creando un prodotto nuovo, interamente ambientato in Italia (o meglio, in una “Giappo-Italia”, vista la bizzarria di alcuni elementi tipicamente nipponici fusi in una cornice occidentale), ma pensato come una continuazione “ufficiale” dell’universo narrativo. È così che nasce l’idea dei live action, prodotti da Rete Italia in collaborazione con Merak Film, la stessa casa che aveva curato il doppiaggio dell’anime. Tutto viene concepito per rispettare l’identità della serie originale: stesse voci, stessi personaggi, stesse atmosfere, ma con attori reali e un linguaggio televisivo più vicino al pubblico europeo.

Love Me Licia (1986): l’atto iniziale

La prima delle serie live, Love Me Licia, debuttò su Italia 1 il 6 ottobre 1986 e si concluse il 24 dicembre dello stesso anno, per un totale di 34 episodi. Il progetto nacque con il consenso dei produttori dell’anime, come una continuazione ideale della versione animata giapponese ma, come abbiamo già detto, con più di una sfumatura inconfondibilmente italiana. La trama riprende dagli ultimi eventi del cartone: i Bee Hive rientrano dagli Stati Uniti e riprendono le attività. Licia sospetta che Mirko abbia una relazione con Mary, la manager del gruppo. Ma la sorpresa è che Marrabbio, il padre di Licia, se ne innamora, tentando di conquistarla con piatti (come le sue famose polpette) e gesti affettuosi. Nel frattempo Vilfredo María (personaggio introdotto per la serie italiana interpretato dall’attore e doppiatore Federico Danti) cerca di carpire la ricetta delle polpette di Marrabbio. L’uomo arriverà addirittura a rapire il gatto Giuliano per realizzare i suoi scopi. Mirko, oltre agli impegni di cantante, deve anche sostenere esami di laurea che incideranno sulla sua possibilità di sposare Licia. Per rendere coerente il passaggio tra cartone e fiction, ogni attore interprete dei personaggi aveva la voce dei doppiatori dell’anime: Cristina D’Avena è Licia (ma nei dialoghi la voce è Donatella Fanfani), Pasquale Finicelli è Mirko (con voce parlata di Ivo De Palma e voce cantata di Enzo Draghi). Anche gli scenari tendono ad assomigliare all’ambientazione animata, pur essendo trasposti in luoghi italiani: gli interni erano girati negli studi Merak Film di Cologno Monzese; gli esterni includono Brugherio, Parco Lambro, Milano Marittima, Villa Arconati, Jesolo, Varallo. Nuovi personaggi vengono introdotti: Lucas (manager dei Bee Hive), Mary, Vilfredo María e Hildegard. Alcuni di essi mantengono le voci dei loro interpreti (Lucas e Hildegard) perché erano già doppiatori. Corrado appare nella serie come sé stesso, presentando un programma in cui i Bee Hive partecipano. La sigla “Love Me Licia” è scritta da Giordano Bruno Martelli e Alessandra Valeri Manera e cantata da Cristina D’Avena.

Licia dolce Licia (1987): conflitti e scelte

Nella primavera del 1987 va in onda Licia dolce Licia, con 35 episodi. La sigla omonima è sempre affidata a Cristina D’Avena. In questa stagione si approfondiscono le vicende sentimentali dei Bee Hive: Steve si innamora di Denise, insegnante di ginnastica, mentre Matt si interessa a Carlotta, insegnante di judo. Mirko chiede la mano di Licia a Marrabbio, che inizialmente si oppone e mette ostacoli affinché Mirko non si laurei. Alla fine, il burbero gestore del Mambo concede la mano di sua figlia al cantante, che si impegna con determinazione per superare gli esami. Anche il cast e i doppiaggi si consolidano in questa fase: molti ruoli confermano l’assetto stabilito nella prima serie (Cristina D’Avena / Donatella Fanfani, Pasquale Finicelli / Ivo De Palma / Enzo Draghi, Salvatore Landolina / Pietro Ubaldi) con piccoli cambiamenti nei ruoli secondari. La produzione resta affidata a Merak Film, con riprese presso studi in via Fratelli Lumière, e location esterne in Cologno Monzese, Milano 2, Monza, Treviglio e Breuil-Cervinia. I concerti della serie vengono girati in locali come lo Studio Zeta a Caravaggio e l’OK Club a Crema.

Teneramente Licia (1987): svolta nel casting

In autunno 1987 viene trasmessa Teneramente Licia, terza serie della saga. È prodotta da Rete Italia/Merak Film come le precedenti. Questa stagione introduce cambi importanti: i Bee Hive storici Steve, Matt e Tony vengono sostituiti con Jim, Mike e Paul. Il doppiatore di Matt, Luigi Rosa, continua a partecipare nella serie doppiando Jim. È una delle prime stagioni in cui alcuni personaggi introdotti non vengono più doppiati da altri ma parlano con la propria voce. Il ruolo di Andrea diventa meno centrale, mentre Giuliano acquista una presenza leggermente maggiore. Andrea, Elisa e Grinta frequentano la scuola elementare. Licia e Mirko si trasferiscono in una nuova casa insieme ad Andrea, e si esplorano gli imprevisti della vita familiare e della carriera musicale. Satomi e Marika vivono tensioni sentimentali, con rotture e riavvicinamenti, e Jack propone che Licia entri nei Bee Hive come vocalist femminile. Marrabbio appare critico ma poi accetta, anche perché l’attività della figlia gli permette di stare vicino alla sua amata “signorina Mary”.

La quarta serie, Balliamo e cantiamo con Licia, viene trasmessa nella primavera del 1988 con 36 episodi. Questa stagione concentra maggiormente l’attenzione sul mondo musicale, con concerti, coreografie, nuovi intrecci tra i Bee Hive e relazione con i protagonisti principali. La sigla Balliamo e cantiamo con Licia viene incisa come colonna sonora ufficiale della serie e l’LP / MC viene pubblicato in concomitanza con la trasmissione. Il finale si sviluppa con annunci di maternità per Licia: alla fine della serie la ragazza scopre di essere incinta, e Mirko decide di rallentare la carriera per starle vicino. Inoltre, nell’ultimo episodio, Cristina D’Avena appare in un collegamento telefonico, invitando Steve, Jim, Paul e Mike a unirsi al suo gruppo musicale: questo fatto fa da prologo al telefilm Arriva Cristina, considerato spin-off della saga di Licia (e di cui parleremo in articoli futuri).

Meccanismi vocali e continuità sonora

Un aspetto tecnico rilevante e confermato è il meccanismo di doppiaggio che unifica cartone e fiction. Fin dalla prima serie, gli attori interpreti dei personaggi venivano doppiati da chi aveva prestato la voce ai loro alter ego anime. Questo permise di conservare una continuità vocale sperimentata per garantire al pubblico la sensazione che fosse lo stesso mondo, non un adattamento completamente diverso. In Balliamo e cantiamo con Licia questa regola venne mitigata: alcuni nuovi personaggi parlavano con la loro voce reale, invece che essere doppiati. Nel doppiaggio della quarta serie, la direzione del doppiaggio venne attribuita a Cip Barcellini, con fonico di doppiaggio Antonello Elli e sincronizzazione Carlo Nardini nel caso della serie Balliamo e cantiamo con Licia.

Il boom e l’Italia che si innamorò di Licia

L’arrivo di Love Me Licia sulle reti Fininvest segnò un momento televisivo inatteso. Quel che doveva essere un esperimento limitato divenne un vero e proprio boom popolare, un fenomeno trasversale che superò l’etichetta di “serie per ragazzi”. Il pubblico, già innamorato della versione animata, trovò nella trasposizione live un prolungamento affettivo: i personaggi non erano più figure di disegno, ma persone reali che cantavano, si innamoravano e litigavano davanti alle stesse scenografie che avevano immaginato nei pomeriggi dell’anime. Il volto dolce e rassicurante di Cristina D’Avena, già simbolo delle sigle televisive dell’infanzia italiana, divenne la chiave del successo. Love Me Licia trasformò il cartone in una soap musicale, ben dieci anni prima dell’avvento della prima soap ufficiale italiana: Un Posto al Sole. Le puntate erano brevi, ma costruite su intrecci familiari e sentimentali, canzoni pop, abiti sgargianti e un’estetica patinata che ricordava i videoclip di quegli anni. Il risultato fu immediato. Gli ascolti premiarono la formula, le canzoni scalarono le classifiche e l’album “Love Me Licia e i Bee Hive” divenne uno dei prodotti discografici più venduti del 1986, confermando che la “band” fittizia aveva ormai conquistato una vita propria. Il successo italiano fu tale da superare quello dell’opera originale in Giappone, dove Ai Shite Knight era rimasto un titolo di nicchia. In Italia, invece, la storia di Licia e Mirko divenne simbolo di un’epoca in cui la musica e la televisione si fondevano in un unico linguaggio popolare. La sigla Love Me Licia, scritta da Alessandra Valeri Manera e Giordano Bruno Martelli, entrò nelle classifiche dei 45 giri e consacrò definitivamente il marchio Fininvest come fabbrica di format per ragazzi. La strategia era chiara: riprodurre l’universo dell’anime con i mezzi della tv generalista, ma offrendo un prodotto nuovo, più luminoso, più vicino al linguaggio pubblicitario, più “italiano” nella gestualità e nei sentimenti.

Curiosità e dettagli di produzione

Uno degli aspetti più affascinanti del progetto fu il modo in cui venne costruita la continuità sonora. Tutti i personaggi principali furono doppiati dagli stessi attori vocali dell’anime, un’idea che oggi potremmo definire di “fidelizzazione percettiva”. Cristina D’Avena recitava e cantava, ma nei dialoghi era doppiata da Donatella Fanfani, la voce originale della Licia animata; Pasquale Finicelli, che interpretava Mirko, era doppiato da Ivo De Palma, mentre le parti cantate erano affidate a Enzo Draghi. Questo meccanismo creava un effetto straniante ma efficace: il pubblico percepiva di trovarsi ancora nel mondo dell’anime, solo “trasferito” nella realtà. Gli interni furono girati negli studi Merak Film di Cologno Monzese, mentre gli esterni spaziavano tra Brugherio, Parco Lambro, Jesolo, Villa Arconati e Milano Marittima. Era un’Italia che sognava di essere Tokyo ma restava ancorata alle luci lombarde degli studi Fininvest, con i suoi corridoi rosa, i muri lucidi e i camerini pieni di lacca. Un’altra curiosità confermata riguarda i colori e i costumi: i capelli blu di Andrea e viola di Satomi nell’anime vennero sostituiti da tonalità più naturali, e Mirko non portò mai gli orecchini che invece aveva la sua controparte disegnata. Anche i nomi dei personaggi rimasero quelli della versione italiana dell’anime: Go era Mirko, Yakko era (ovviamente) Licia. Personaggi come Vilfredo María, Mary o Hildegard, invece, furono inventati appositamente per il telefilm. Questi adattamenti, oggi apparentemente ingenui, dimostrano quanto l’operazione fosse calibrata: unire il gusto comico del varietà a un racconto sentimentale da anime, ma in salsa milanese.

Un fenomeno mediatico made in Fininvest

Fininvest intuì subito che la saga di Licia poteva diventare una macchina culturale. Le quattro serie televisive si collegavano idealmente tra loro come stagioni di un unico racconto, e ogni uscita coincideva con un nuovo album musicale. Ogni puntata era una vetrina per una canzone, e ogni canzone diventava pubblicità indiretta per la serie. Il marchio “Bee Hive” finì su dischi, poster, giocattoli, gadget scolastici. La televisione privata italiana, ancora giovane, trovò nel mondo di Licia la sua prima forma di franchise: non un semplice programma, ma un universo coerente, con sigle, tournée promozionali, fan club e album fotografici. Il successo televisivo trasformò i suoi interpreti in piccoli idoli pop. Pasquale Finicelli e Sebastian Harrison venivano intervistati nelle riviste per adolescenti; Manuel De Peppe, batterista del gruppo nella finzione, si esibiva realmente negli show di Rete 4. Tutto, però, restava perfettamente controllato dalla macchina Fininvest: nessuna improvvisazione, nessuna autonomia artistica, ma una struttura di promozione sincronizzata con la messa in onda. Quell’organizzazione industriale della leggerezza, che oggi chiameremmo “brand universe”, nacque proprio con Licia.

Retroscena noti e meccanica del successo

Dietro la superficie patinata, il progetto era gestito con rigore. Le sceneggiature, scritte da un team interno a Rete Italia, erano studiate per evitare riferimenti troppo “giapponesi” e per sostituire le situazioni dell’anime con contesti più familiari al pubblico italiano. Le riprese si svolgevano in tempi strettissimi, spesso in contemporanea con la lavorazione delle nuove sigle. Ogni episodio durava circa venti minuti, ma veniva montato come se fosse un videoclip: cambi di inquadratura veloci, interni luminosi, coreografie minime ma costanti. Licia era un po’ fiction, un po’ soap, un po’ videoclip, un po’ cartone animato. Ogni puntata conteneva almeno un momento di canto, un duetto o un’esibizione dei Bee Hive. La musica non era semplice accompagnamento: era la trama stessa, l’elemento che legava i personaggi e le emozioni. La formula si rivelò perfetta per il pubblico dei ragazzi, abituato alla tv dei cartoni e pronto ad accogliere un “cartone dal vivo”.

L’eredità di Licia tra mito pop e culto trash

A quasi quarant’anni di distanza, le serie di Licia restano una pagina imprescindibile della cultura televisiva italiana, ma anche uno dei simboli più curiosi di quanto la tv commerciale degli anni Ottanta sapesse essere ingenua e visionaria allo stesso tempo. Da un lato, è impossibile negare il loro valore popolare: per un’intera generazione, Licia e Mirko sono stati la prima forma di romanzo sentimentale in musica, una fiaba moderna in cui la quotidianità si mescolava al sogno, e dove le sigle di Cristina D’Avena facevano da colonna sonora all’adolescenza di milioni di spettatori. Un amore televisivo così iconico lo ritroveremmo solamente nel 2003 in Elisa di Rivombrosa tra la povera, ma intraprendente, Elisa Scalzi e il conte Fabrizio Ristori. I Bee Hive erano un gruppo fittizio, ma i loro dischi si vendevano davvero; le location lombarde diventavano Tokyo per convenzione, e nessuno trovava strano quel compromesso visivo tra sushi e cotoletta (pardon… fettine panate!). Eppure, riviste oggi, queste serie rivelano tutto il loro “trash” involontario: colori saturi, acconciature impossibili, recitazione rigida e una geografia sospesa tra Milano e l’immaginario nipponico. Il tempo ha trasformato l’esperimento in un fenomeno di culto, ma anche in un piccolo gioiello di kitsch televisivo. Le luci patinate, i set riciclati dagli studi Merak e i dialoghi doppiati creavano un effetto straniante, quasi onirico, che oggi diverte più di quanto commuova. Quello che negli anni Ottanta appariva come una favola moderna, oggi sembra un sogno artificiale, un ibrido che nessun’altra televisione europea ha mai tentato con tanta serietà e candore. È proprio in questo contrasto che sopravvive il lascito di Licia: metà nostalgia autentica, metà ironia retrospettiva. Le repliche di Mediaset Extra e le discussioni online non ridono di lei, ma con lei, riconoscendo a quell’universo zuccheroso il merito di aver unito due mondi — l’animazione giapponese e la tv pop italiana — in un equilibrio fragile e irripetibile. Licia forse è invecchiata male, ma allo stesso tempo con grazia: come una fotografia sbiadita che racconta un’epoca in cui la tv italiana credeva ancora che bastasse un sorriso, una canzone e una parrucca ben cotonata per far sognare… e le fettine panate ovviamente!


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