La canzone napoletana, origini e curiosità

LA CANZONE NAPOLETANA
Origini e Curiosità
Alcuni amici, mi hanno posto delle domande dopo aver letto l’articolo riguardante “Sulle ali della lirica”, a proposito delle origini della Canzone Napoletana. Sono sicuro che questo poche righe avrebbero fatto piacere al compianto Pio Longo, che ha sempre cercato delle similitudini tra la nostra terra e quella campana.
Premetto che avendo frequentato per un periodo la Capitale Borbonica, ho potuto “assaporare”, “illo tempore” la cultura partenopea girovagando tra Baia e punta Campanella. In questi luoghi c’è un “fil rouge” che comprende un percorso di sensazioni uniche: la musica vi è dappertutto, come nella Casina Vanvitelliana che ha ospitato nei suoi ambienti Gioacchino Rossini, e che vide transitare sul lago di Fusaro il genio di Mozart.
La tradizione vuole che la canzone napoletana contemporanea prendeva forma, intorno al ‘500, con le Villanelle, una sorta di canti o poesie popolari formati per lo più da endecasillabi (una delle metriche dalla gradevole fluidità), unità alla musicalità della Tarantella pugliese molto in voga nel ‘600.
E pare che la “canzone” nasceva proprio dall’usanza di portare le cosiddette serenate presso l’abitazione della propria amata.
Uno degli esempi più fulgidi di questa tradizione sono gli “strapulette” dei Cantori di Carpino, che i vari musicologi napoletani ed artisti hanno studiato a fondo. Tra questi quelli della Nuova Compagnia di Canto Popolare, facente capo ai vari Eugenio Bennato, Carlo D’Angiò, Roberto De Simone e Giovanni Mauriello; proprio perchè canto originale ed ancestrale, perché ancora pregno della sua originalità.
Queste serenate a Carpino venivano suonate con la chitarra battente o italiana (mentre l’odierna chitarra classica è quella francese), e a Napoli e dintorni con il Calascione, un cordofono, caratterizzato da un manico lunghissimo (tra uno e due metri) a fronte di una cassa molto piccola, insomma era abbastanza ingombrante.
Con il termine Calascione, ancora oggi, qualche sipontino attempato indica una soggetto un “po’ pesante” di carattere.
Le canzoni erano una volta per lo più improvvisate, senza una trascrizione… esse dimoravano nelle menti degli esecutori che stazionavano nelle taverne e cantine e si sfidavano a colpi di rime e strofe.
Questo alternarsi di scherzi e stornelli fece nascere la cosiddetta “opera buffa”, che veniva spessa rappresentata negli intermezzi dell’opera seria. Una delle più famose opere buffe fu la Serva Padrone di Pergolesi del 1733.
Di questa tradizione c’erano a Manfredonia i cosiddetti “balletti” di cui il più famoso quello di Ze Luiggjie, e Carnevale nelle Socie si dava spazio al ballo ed al motteggio.
Il primo poeta dialettale sipontino che si rifà alle tradizione napoletana delle canzoni è stato Carlo Valente. Della sua vastissima composizione orale restano pochissimi versi (anch’essi in endecasillabo), come ci disse suo nipote, il compianto Zio Nino, che ci declamò anni orsono una sua poesia dal titolo “a puppete”.
A seguire ci fu Salvatore De Padova (e quanne a panze a lamie ho vultete, jie mette li mene sope la trippe…) che scrisse in un dialetto misto tra quello partenopeo e quello sipontino.
Le prime case editrici nacquero ai primi dell’800 proprio per raccogliere la vasta produzione popolare, ma il primo vero brano della musica napoletana contemporanea fu, Te voglio bene assaje, scritto da Raffaele Sacco e musicato da Filippo Campanella, anche se pare che tra gli autori vi era Gaetano Donizetti. La composizione fu presentata il 7 settembre 1839 alla Festa di Piedigrotta, diventata in seguito il Festival di Napoli.
Tanti furono gli autori che si cimentarono in questo nuovo genere, tra questi Gabriele D’Annunzio, abruzzese, che scrisse A vucchella, in risposta a Ferdinando Russo, anch’egli poeta, che dubitata sulle capacità del vate di scrivere in lingua napoletana.
Oggi la canzone napoletana è un genere a se stante, che fa parte della musica italiana, ma peculiarità uniche ed originali, anche perché nato prima del 1860.
Giovanni Ognissanti