“Non è più vita la nostra in ospedale, credetemi”, la lettera di una dottoressa del Riuniti

Dopo il caso dell’aggressione al Riuniti da parte dei familiari di una persona deceduta in ospedale per cause ancora da accertare, si susseguono i dibattiti e le supposizioni.
Poche ore fa, una dottoressa del Riuniti di Foggia ha pubblicato un lungo post che vi proponiamo:
“Ho aspettato qualche giorno a scrivere della triste vicenda, perché chi mi conosce sa, sono una persona impulsiva, e l’impulsività non sempre è una buona consigliera.
Quella notte ero di guardia e ho refertato gli esami dei colleghi coinvolti.
Questo non mi è stato d’aiuto, perché dentro di me la rabbia è montata subito.
Ho visto parecchi articoli, ho ascoltato la notizia ai TG nazionali, ho sentito i commenti degli addetti ai lavori e della signora dietro di me, in fila alla cassa del supermercato.
Poi ho letto la lettera della sorella di Natascha, nome purtroppo noto a noi ‘addetti ai lavori’ perché da Giugno era ricoverata nel nostro Policlinico, a seguito di un gravissimo incidente stradale.
Una lettera che trasuda disperazione e rancore, ma tant’è, lei ha perso una sorella.
Scrive il suo dolore.
Chi di noi potrebbe non comprenderla?
Eppure tra quella righe c’è il seme di un odio nefasto, che ho visto trasudare da più commenti, da più parti, da terze voci.
Natasha si era ‘salvata da un grave danno assonale’.
Alt.
Natascha era stata presa in carico dall’equipe dei nostri rianimatori in condizioni gravissime, sottoposta alle cure di professionisti altamente specializzati, ed era stato grazie a loro se si era salvata da un destino infausto già all’esordio.
Dopo vicende cliniche nelle quali, per ovvi motivi, non è il caso di addentrarsi in questa sede, era stata sottoposta ad un intervento salvavita di neurochirurgia e poi trasferita in un reparto di Riabilitazione, nel
quale, con la sua volontà certo ma anche grazie ai protocolli e alle cure del caso, era riuscita a rimettersi in piedi.
Le era stata salvata la vita.
Dalla buona sanità.
Dalla sanità che fa il suo lavoro notte e giorno, quella di cui non si parla.
Quella che non si ringrazia.
Quella che non fa notizia.
Quella gratis, garantita di diritto a tutti.
Era in attesa di un trasferimento in una struttura specializzata per subire, in elezione, un intervento che qui, nel nostro Policlinico, non viene effettuato di routine.
Perché si, udite udite, la verità è questa.
Lo scibile medico e’ sconfinato e, invece, le nostre risorse umane di medici sono limitate.
L’intervento era da eseguire in un centro di riferimento per questo tipo di chirurgia, era un intervento per il quale nel nostro Policlinico non era stata maturata una sufficiente esperienza.
Le condizioni delle ragazze erano stabili, come scrive la sorella stessa.
I parametri vitali buoni.
Poi accade l’imprevisto.
E già.
L’imprevisto che, e qui di nuovo ascoltate bene vi prego, fa tremare le vene ai polsi anche ai medici.
La necessità di intervenire d’urgenza, per scongiurare il peggio.
Datemi retta, nessuno, nessuno al mondo, si sarebbe voluto trovare al posto di quei colleghi.
La lotta tra la vita e la morte, il filo sottile su cui ci si gioca tutto.
E allora mi immagino la loro adrenalina in sala, il fermento del personale tutto, le grida, le imprecazioni, lo sgomento.
La paura.
Si, la paura.
Perché la morte è spaventosa, e’ una possibilità che non vogliamo contemplare, è una battaglia spesso impari.
Eppure quella battaglia in sala operatoria, in Rianimazione, in corsia, in PS, da noi in TC, si combatte tutti i giorni.
La vigilia di Natale e a Ferragosto, senza sosta, a mezzogiorno o alle tre di notte.
Questo è il punto.
Quella battaglia è la vostra una volta nella vita, ma è la nostra ogni giorno.
E qualsiasi cosa vi faccia comodo pensare, i nemici non siamo noi medici.
Fate attenzione.
Il nostro intervento non è garanzia di salvezza.
E’ impegno a farcela.
Ed è pur sempre la sola possibilità che abbiamo.
Venire in ospedale ‘a fare la guerra peggio di Gomorra’, come leggo in quella lettera, deve essere un’opzione non ammissibile.
Non può essere giustificata.
Neanche dal dolore più cupo, dalla disperazione più sorda.
Non in un paese civile, quale
dobbiamo fare in modo che l’Italia resti.
Perché la spedizione punitiva che colpisce il sistema sanitario nazionale è un gesto animalesco e pericoloso.
Tenta di legittimare la vecchia legge del taglione.
E’ un reato grave.
Ma soprattutto ci toglie la sola possibilità che abbiamo di sconfiggere la malattia.
E mentre noi ci scontriamo, tra innocentisti e colpevolisti, in una pirandelliana bagarre, tempo qualche anno e alla morte, negli ospedali, avremo lasciato il campo libero.
Vi racconto una cosa.
Ieri una signora, lamentandosi della presunta attesa ( di qualche minuto) per un esame RM al figlioletto, in perfetta buona salute (grazie a Dio, eh, e non grazie a me) mi ha detto, cavalcando vergognosamente l’onda dei tragici eventi dei giorni scorsi … ‘Fanno bene poi, quando vi menano’.
‘Fanno bene’.
Non è più vita la nostra in ospedale, credetemi.
Siamo stanchi. Siamo demotivati. Siamo pochi.
Non possiamo più continuare così.
Servono misure efficaci.
Serve fermarci a riflettere.
Serve adesso.
Siamo ad un punto di non ritorno, la sanità pubblica è al collasso.
La situazione è già sfuggita di mano.”