Il saluto del prof Illiceto al Galilei-Moro. L’uomo e il docente. La filosofia applicata alla vita e una vita dedicata alla filosofia

In occasione del suo congedo dall’insegnamento, il professor Michele Illiceto saluterà la comunità del Galilei-Moro attraverso un dialogo aperto con i suoi studenti, un momento di speculazione filosofica e confronto, uno spazio culturale e umano. In questa intervista il professore ripercorre la sua esperienza di insegnante, filosofo e scrittore, condividendo le emozioni che precedono questo pomeriggio speciale, e le riflessioni maturate nel corso di una vita dedicata allo studio e all’educazione.
L: Professore, grazie per aver accettato di condividere con noi qualche riflessione in vista dell’incontro del 30 maggio: una data speciale, un’occasione per celebrare il congedo dalla scuola e salutare i suoi studenti, ma anche un momento culturale e dialogico. Quali emozioni la accompagnano in vista di questo appuntamento? E quali pensieri la conducono verso questa nuova fase della vita?
M: Provo un senso di immensa gratitudine nei confronti di tutti i miei studenti, di ieri e di oggi, perché, mentre insegnavo loro a filosofare, ero io a imparare da loro: dalle loro domande, dai loro dubbi, ma anche dalla loro autentica voglia di conoscere, allo scopo di trovare risposte capaci di dare un senso alla vita.
Provo, altresì, un senso di profonda soddisfazione, propria di chi, guardandosi indietro, può ammirare i frutti maturati dai semi gettati e innaffiati con cura in tanti ragazzi e ragazze, i quali, come te — che, d’altronde, sei stata mia alunna — hanno realizzato i loro progetti grazie anche alla formazione culturale e filosofica ricevuta, che ha permesso loro di affrontare con autonomia e sicurezza le sfide della vita.
L: Vorrei partire dall’inizio: quando e perché ha scelto di insegnare filosofia? C’è stato un episodio in particolare che ha segnato questa scelta?
M: Ho scoperto la filosofia tardi, durante il mio percorso di discernimento, quando mi iscrissi alla Facoltà di Teologia, e fu subito amore. Nella filosofia ho trovato le domande che da tempo mi abitavano, ero già filosofo, ma ancora non lo sapevo. In fondo, come afferma Aristotele, in quanto cercatori di senso, siamo tutti filosofi.
La filosofia mi ha insegnato a pormi le domande giuste e mi ha offerto gli strumenti per cercare risposte adeguate. Ho iniziato a filosofare non dall’alto di nozioni astratte o di un sapere già preconfezionato, ma dal basso, a partire dai problemi esistenziali che ciascuno di noi affronta ogni giorno.
L: Tra i filosofi che ha attraversato, quale sente più vicino alla sua voce interiore? E quale invece ha imparato ad amare col tempo?
M: Impazzisco per la filosofia greca, perché in essa si trova già, in nuce, tutto ciò che i filosofi diranno nei secoli successivi. Le grandi domande se le sono poste per primi Socrate e Platone e gli autori della tragedia greca. Amo Socrate perché ha sottolineato l’importanza di conoscere se stessi come prerequisito indispensabile prima di ogni altra forma di conoscenza. Amo Platone perché ha posto le fondamenta del pensiero occidentale, affrontando temi come il bene, l’amore, la morte e concependo la politica come dimensione nella quale ogni individuo si riconosce come parte integrante della comunità in cui vive. Amo profondamente Agostino, precursore dell’esistenzialismo, il quale, dopo un lungo e travagliato percorso di ricerca e smarrimento, incontra Dio e scopre in Lui la luce della ragione. Agostino è anche il filosofo dell’amore, dell’introspezione come ricerca di se stessi. Come non amare Kant, il filosofo che ha elevato la legge morale a fondamento della dignità umana? Non ci sono filosofi che io non abbia amato, perché ogni filosofo ha avuto il merito di rivelarmi un lato della complessità della vita e della profondità di pensiero esercitata dall’uomo. Da pensatore credente, ho amato tantissimo anche i filosofi atei, nichilisti, che ho spiegato nelle mie lezioni universitarie. Penso a Feuerbach, a Marx, a Nietzsche, a Sartre, Camus e negli ultimi anni a Cioran. Il loro ateismo mi ha aiutato a capire meglio ciò a cui da credente credo.
L: Lei è un insegnante, ma anche uno scrittore: come dialogano, dentro di lei, queste due anime?
M: Quando insegno elaboro al momento ciò che dico, e lo faccio interagendo con i miei studenti, lasciandomi provocare dalle loro osservazioni, ma anche dalle loro critiche e obiezioni. Insegno partendo dalle domande e dai problemi, secondo un metodo dialogico noto come metodo zetetico. La lezione non nasce dalla trasmissione di nozioni preconfezionate, ma si sviluppa nel vivo dell’interazione con gli studenti. Sebbene vi sia una preparazione a monte, frutto del mio studio accademico e della mia ricerca quotidiana, ciò che accade in aula si costruisce nell’ora di lezione. In questa visione, l’insegnante non è un semplice trasmettitore di saperi, ma un pensatore in atto. È proprio da questa continua sollecitazione intellettuale ed esistenziale che nasce la mia esigenza di scrivere. I miei libri non sono il prodotto di un lavoro teorico astratto, sono nati tra i banchi di scuola. Scrivo partendo da ciò che insegno, da ciò che vivo durante l’ora di lezione e insegno ciò che come filosofo penso.
L: In Dialogo sulla morte, lei scrive che “morire non è la fine di tutto, ma forse il punto più alto dell’essere”. Cosa può insegnare oggi la morte, in una società che la nasconde?
M: La morte è tra i temi centrali della riflessione filosofica. Un grande filosofo contemporaneo afferma che dalla morte nasce la necessità di pensare. Già Anassimandro, filosofo greco di VI secolo a.C. vedeva nella morte il prezzo da pagare per il solo fatto di essere nati. Egli, infatti concepiva la nascita come separazione dall’Apeiron, l’originario Uno-tutto, dunque un’ingiustizia da espiare con la morte. Nel libro da te citato, io interpreto la morte alla luce della visione cristiana. Moriamo ogni volta che ci doniamo, ma in questa morte “muore la morte stessa”, poiché donando priviamo la morte del suo potere di sottrarci qualcosa. Se avremo dato tutto, nel momento in cui la morte giungerà, non potrà portarci via ciò che abbiamo donato, poiché ciò resterà presso chi lo ha ricevuto. La morte come dono ci rende in qualche modo immortali.
L: Il 30 maggio non sarà solo un momento di saluto, ma anche uno spazio di riflessione e confronto. Che tipo di dialogo immagina con i suoi studenti in quella giornata? Ha pensato a un tema guida per la conversazione? E cosa spera che resti, a loro e a lei, di questo incontro?
M: Il 30 maggio mi congederò dalla scuola con una conversazione filosofica insieme ai miei studenti. Il tema scelto è la Weltnacht — la “notte del mondo” — un concetto caro a Martin Heidegger. Affronteremo, in dialogo, il rapporto tra la notte e il pensiero, un pensiero che, proprio dentro l’oscurità, può ancora portare luce. Partiremo dal mito della caverna di Platone per giungere alla notte più tragica del Novecento, quella di Auschwitz, narrata da Elie Wiesel. Passeremo per la figura di Diogene il Cinico, che accende una lanterna per cercare l’uomo nella botte, e per quella dell’uomo folle di Nietzsche, che al mercato annuncia la morte di Dio e la cui lanterna, cadendo a terra si infrange, simboleggiando lo smarrimento dell’umanità. La notte viene intesa come il momento in cui il pensiero smette di pensare, in cui la ragione smette di meravigliarsi, divenendo prigioniera dell’ovvietà e ostaggio della banalità.
L: Se avesse davanti a sé il suo “primo giorno di scuola”, con il cuore pieno di attese e paure, cosa si direbbe oggi, con tutto il vissuto che ha accumulato?
M:Il mio primo giorno di scuola non lo dimenticherò mai, avevo paura nonostante mi sentissi sicuro. Mi presentai ai miei studenti non come un detentore di verità, ma come qualcuno che, più che insegnare, desiderava ascoltare e capire. Mi interessava soprattutto ciò che non sapevo. Seguendo il metodo maieutico di Socrate, il mio obiettivo pedagogico è sempre stato quello di aiutare gli studenti a far emergere il loro mondo interiore, ciò che era nascosto, affinché potessero diventare socraticamente padroni di se stessi, autonomi nel pensiero e liberi nell’agire.
L: La sua esperienza è come se fosse stata una lunga, luminosa onda: ora che torna a confondersi col mare della vita, che forma prende?
M: Andrò in pensione come docente, ma non come pensatore né come provocatore. Continuerò a scrivere e a coltivare il pensiero. Lo farò con quel lucido distacco che la filosofia insegna, lasciando spazio al nuovo. Mi farò da parte con serenità, per contemplare i frutti nati dai semi che, negli anni ho piantato.
La gioia più grande è vedere tanti miei ex alunni che, nel tempo, hanno superato il maestro — ammesso che io sia stato un maestro.


