Attualità Capitanata

Trent’anni da Capaci: il sacrificio del pugliese Antonio Montinaro, caposcorta di Falcone

Fra le vittime della Strage di Capaci, il dramma che il 23 maggio 1992 sconvolse Palermo e il Paese intero, non ci fu solamente Giovanni Falcone, il magistrato vittima di uno degli attacchi mafiosi più forti e violenti di sempre. Accanto a lui, sull’autostrada che portava il magistrato dall’aeroporto di Punta Raisi a Palermo, c’erano anche gli uomini della sua scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani

La macchina di questi servitori dello stato fu completamente catapultata molti metri più il là: il tritolo preparato da Cosa Nostra colpì in pieno l’auto della scorta. Montinaro, caposcorta di Falcone, era pugliese. Nato a Calimera, in provincia di Lecce, Antonio si arruola subito in Polizia. Dopo l’esperienza a Bergamo, arriva a Palermo e grazie alla sua professionalità diventa il caposcorta dell’uomo più sotto attacco: Giovanni Falcone, l’uomo del Maxi processo alla mafia siciliana. Con il suo impegno, che fu quello di tutti gli uomini di scorta morti per aver difeso personalità dello Stato, era convinto che si potesse cambiare qualcosa. Negli anni con Falcone si era creato un rapporto simbiotico che, sfortunatamente, non li dividerà nemmeno nella morte. 

Una delle frasi più belle di Montinaro, uomo solare e giocoso, è questa: “Io ho sempre detto che chiunque fa questo lavoro ha la capacità di scegliere tra la paura e la vigliaccheria. La paura è qualcosa che tutti abbiamo: chi ha paura sogna, ama, piange, è un sentimento umano. È la vigliaccheria che non deve rientrare nell’ottica umana. Io come tutti gli uomini ho paura indubbiamente, ma non sono vigliacco”. 

Trent’anni fa, in quel 1992 tragico e crudele, Antonio non aveva ancora compiuto 30 anni, ma lasciava sua moglie Tina con due figli. La stessa Tina è la promotrice di tante iniziative antimafia, a partire dall’associazione “Quarto Savona Quindici”. La sigla si riferisce al nome della macchina che utilizzarono i ragazzi della scorta in quel tragico giorno. Ancora oggi, per ricordare quel sacrificio, quella macchina viaggia per tutta l’Italia per non dimenticare l’impegno di uomini dello Stato morti per salvare un’idea di giustizia. 

Sua moglie Tina non smette di ricordare e portare avanti il suo esempio. “Una delle prime scelte che feci – ha dichiarato – fu quella di rimanere a Palermo dopo la strage di Capaci, il 23 maggio 1992. Anche senza parlare, la mia presenza a Palermo la devono sentire. E poi, semmai, sono i mafiosi che se ne devono andare da questa bella città, sono loro che si devono vergognare. Io sono la moglie di Antonio, continuo a andare in giro per l’Italia a parlare di Antonio, di quello che ha fatto per la mia famiglia, della sua onestà e del suo senso dello Stato. E ne parlo anche con i miei figli. Ancora oggi Antonio mi riempie la vita. Con la sua morte, ha dato l’esempio al mondo”.

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