L’Università di Foggia ricorda Rosario Livatino, un giudice come Dio comanda
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Venerdì 30 giugno l’università di Foggia ricorda “Il piccolo giudice”, ucciso la mattina del 21 settembre 1990 mentre è atteso al tribunale di Agrigento per trattare due misure di prevenzione relative a Giuseppe Calafato e Francesco Allegro De Palma.
Nelle sue attività il giudice Livatino si era occupato di quella che sarebbe esplosa come la Tangentopoli Siciliana mettendo a segno numerosi colpi nei confronti della mafia attraverso la confisca dei beni. E questa decisione gli costò cara, proprio perché il mafioso non considera il carcere la peggiore delle sventure, è qualcosa che mette sempre in conto. Ciò che fa realmente male a un mafioso sono il sequestro e la confisca dei beni. È quanto avviene quando, lo Stato fa propri i simboli con la realtà materiale del suo dominio sul territorio, contribuendo a fargli perdere forza di intimidazione, credibilità e quel consenso necessario per mantenere una posizione egemone nell’area di riferimento.
“ Picciotti cosa vi ho fatto?”.
Le sue ultime parole calibrate da un invito a desistere, furono proprio queste. Non vi era minaccia, nessun tono autorevole ma solo una domanda spontanea rivolta ai quattro killer della Stidda che con tanta crudeltà lo hanno freddato.
Sto parlando di Rosario Livatino, primo magistrato beato nella storia della Chiesa, un uomo che con grande umanità si impegnava a “camminare sempre sotto lo sguardo di Dio”. Non era il capo della Repubblica, non era il capo degli affari penali del ministero della giustizia, era solo un giudice come Dio comanda!
Un giovane magistrato di 38 anni, che con mezzi limitati e senza alcuna tutela personale, operando ad Agrigento ha onorato la toga in modo così esemplare da sacrificare la vita. La propria vita!
Esattamente cos’ha da insegnare a chi indossa la toga in qualsiasi ufficio giudiziario, in quelli esposti alla repressione della criminalità?
Rosario è un modello per ogni magistrato che incarna in sé in modo eccelso le doti che ci si attende da chiunque indossi una toga, ma perché è un esempio di legalità? Tutto merito della sua educazione solida ed ordinaria, basata sul senso del dovere (trasmesso dai suoi genitori), fortificato dalla sua maturazione morale e spirituale.
Attualmente stiamo assistendo ad una caduta del senso della moralità e della legalità nella coscienza e nei comportamenti della nostra società. Siamo dinanzi ad un’emergenza vera e propria. Il senso di legalità non è un valore che si improvvisa ma esige un vero e proprio lungo percorso educativo. Tutto parte dalla famiglia, dalla scuola palestra di vita, seguono i mezzi di comunicazione sociale. Un grande contributo spetta anche alla comunità cristiana, alle parrocchie, alle catechesi e alle organizzazioni di carità. Il nostro esempio da seguire potrebbe essere proprio lui che, illuminato da una fede profonda, con l’umiltà autentica di chi sa che la ricerca della verità comporta uno sforzo quotidiano, ha semplicemente affidato la sua vita, la sua intera vita al Signore.
Ha dato la sua vita per il Signore e ciò emerge proprio quando, in punto di morte porta i suoi assassini davanti alle loro coscienze e all’ingiustizia che stavano compiendo, scaturita proprio dal suo modo di esercitare la giustizia secondo la fede, fenomeno di conoscenza che implica la ragione. E dato che un fenomeno di conoscenza che implica la ragione è un fenomeno di conoscenza di ciò che c’è, ha favorito il giovane giudice a guardare sul serio la realtà. Ecco perché dovremmo tutti avere il cuore desto nella nostra vita. È una cosa seria con un significato, è un compito di fronte a tutto il mondo, di fronte a tutto il creato, a tutti i tempi. La vita è un significato ultimo, definitivo, completo.
Livatino osservava come Gesù affermi che “la giustizia è necessaria, ma non sufficiente, e può e deve essere superata dalla legge della carità che è la legge dell’amore, amore verso il prossimo e verso Dio, ma verso il prossimo in quanto immagine di Dio, quindi in modo non riducibile alla mera solidarietà umana; e forse può in esso rinvenirsi un possibile ulteriore significato: la legge, pur nella sua oggettiva identità e nella sua autonoma finalizzazione, è fatta per l’uomo e non l’uomo per la legge, per cui la stessa interpretazione e la stessa applicazione della legge vanno operate col suo spirito e non in quei termini formali”. Ecco perché per educare soprattutto i giovani alla legalità non servono grandi cose. Bisogna solo insegnare loro a trarre profitto dai luoghi formativi comuni che la realtà presenta camminando sempre “sotto lo sguardo di Dio”.
Secondo Giovanni Paolo II, Rosario ha fatto della giustizia la sua missione. Lo definisce così
“Martire della giustizia e indirettamente della fede”.
Giovanna La Piscopia