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La Sciabbica di Manfredonia: rito antico sotto costa

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La Sciabbica di Manfredonia: rito antico sotto costa

Il golfo di Manfredonia, ampio e solenne come un’arena naturale, custodisce ancora il segreto della sciabica, pesca arcaica che non è solo mestiere, ma liturgia collettiva. Lì, sotto costa — a rripe de mére — fra il canale delle brecce e la foce del Candelaro, l’uomo e il mare da secoli si fronteggiano e si corteggiano. Le acque basse, feconde di plancton, paiono una culla azzurra da cui sgorgano sardine e aguglie, cefali e sgombri, il pane quotidiano delle genti sipontine.

Questo articolo è stato scritto spulciando la raccolta di saggi in Lingua e Storia in Puglia, edizione Atlantica, pubblicata dal Prof. Michele Melillo nel 1979. Il contributo sulla Sciabbica fu scritto da mio padre, Prof. Pasquale Ognissanti. Io non ho fatto altro che rileggerlo e raccontarlo con la voce di chi, bambino frequentava questi ambienti di cattedratici e che sognava di trasformare da grande queste storie in epopea.

L’equipaggio della pesca con la Sciabica — a chiorme — è undici anime, come una squadra di calcio in cerca di gloria: sei a terra, custodi della corda, e cinque in barca, su quel fragile guscio che in dialetto si chiama u schiffe. Quattro remano, tesi come muscoli di una sola schiena, e il quinto, il capo — u chépe — governa il calo della rete, gesto che ha del mistico. Egli non getta soltanto un attrezzo: egli scruta, indovina, asseconda la danza segreta dei pesci — a ròcchje i pisce — come un rabdomante che ascolta i sussurri dell’acqua.

La rete, imbuto colossale, è geometria e poesia insieme: sei passi d’altezza, sessanta di lunghezza, venti di larghezza. Il suo ventre è un teatro di corde e nodi, déje cacchje, di bracci zampannére larghi per convogliare la preda e di sacchi minuziosi, fino a quell’ultimo ventre stretto, u pezzecodde, in cui il destino si compie. Ogni dettaglio — la felza trapezoidale che resiste agli strappi, i piombi e i sugheri in perfetto equilibrio — sembra concepito da un ingegnere che abbia studiato direttamente sul respiro del mare.

E poi, ecco il dramma umano: i pescatori piegati a quarantacinque gradi, che tirano le corde con lentezza o furia, secondo il volere del mare. Due squadre che si avvicinano, accòstene, come pugili che si rispettano, correggendosi a vicenda. È un corpo a corpo con l’acqua, uno strappo di muscoli e di fiato, fino a che il sacco — gravido di vita — non approda finalmente sulla rena.

E lì, sotto il sole che incendia la sabbia, si celebra il giudizio: il capo — ce chepe — sceglie cosa salvare e cosa buttare. Alici e sarde, dentici e saraghi: la generosità del mare si rivela, diversa a seconda della stagione, e Manfredonia si nutre del suo umus marino.

La sciabica non è solo pesca. È corale fatica di uomini che diventano una cosa sola con la corda, la rete, la barca, con quel mare che dà e che toglie. È un rito antico, scandito in dialetto, intriso di bestemmie e sale, che trasforma il lavoro in una litania: caricò, carichicò. Un calcio di rigore battuto contro l’ignoto, con il destino che a volte si tuffa dall’altra parte.

Giovanni Ognissanti

foto Antonella Ognissanti

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