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Garganodascoprire: “La superstizione del malocchio”

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Garganodascoprire: “La superstizione del malocchio”

L’AFFASCINATURA E LA SUPERSTIZIONE DEL MALOCCHIO.

La Daunia è un territorio dove la religiosità ufficiale si è aggrovigliata in fitte trame con le antiche tradizioni popolari. Da questi intrecci emergono aspetti del folklore che mostrano più di altri le peculiarità della cultura di una comunità. Oggi tante tradizioni vanno sbiadendo, ma fino a qualche decennio fa erano ancora vive e vegete.

Prendiamo, per esempio, la superstizione: essa è in genere considerata come qualcosa di spregiativo che incamera tutte le credenze contrastanti con la razionalità e la fede. È un’esasperazione o peggio adulterazione del culto e delle finalità del sentimento religioso. La diffusione della superstizione è proporzionale alle paure e alle incertezze individuali e collettive, sia quando nel passato si cercava una difesa magica nella natura, sia come cura al malessere psicologico odierno, per quel che ne rimane.

Risulta, comunque, essere un male irrazionale che si insinua tra la gente senza distinzione di classi sociali, quando i rischi del vivere diventano maggiori e la precarietà della vita ne determina il bisogno di governare forze extra-umane di cui ci si ritiene vittime. Nel passato, la salute e la sicurezza nei propri beni erano privilegi che andavano strenuamente conservati e molti per farlo si rivolgevano alla “fattura”, alla cui pratica erano preposte donne che elaboravano filtri o compivano operazioni magiche ai fini di poter piegare la volontà degli individui.

L’amore, la malattia, la sfortuna, l’invidia, la vendetta erano i moventi che spingevano i clienti dai maghi per ottenere benessere, ricchezza, matrimonio o per procurare malattie e, perfino, morte ai nemici. La credenza nella fattura è oggi quasi svanita, mentre rimane ancora in auge qua e là il malocchio, soprattutto fra le donne anziane.

Di Nauta, in una sua bellissima pubblicazione sulla magia e superstizione garganica, ci ricorda che da un’indagine condotta nel Gargano, nel 1992, sulla credenza in pratiche superstiziose risultava in testa San Nicandro, seguita in ordine da Apricena e Vieste.

L’argomento delle superstizioni rientra nello studio delle terapie magiche utilizzate per curare o procurare malattie. Al di là dell’efficacia di questi rimedi, la loro conoscenza è utile ai fini di una ricerca sui mutamenti culturali, dove per cultura si intende l’unità delle espressioni e delle esperienze umane che hanno interessato il nostro Gargano, dalle origini fino agli ultimi anni.

Una delle forme più popolari di superstizione garganica era la paura del “malocchio”, lo sguardo cattivo. Questa carica negativa, scaturita dalla mente della persona che nutre nei confronti di altri un complesso di inferiorità, tende a distruggere tutto quello che potrebbe portare gioia, serenità, vantaggi e affermazioni sia morali che materiali. Chi possiede qualcosa di prezioso ha, quindi, timore dell’invidia degli altri, il cui sguardo nasconde l’intenzione di nuocere.

Esso poteva colpire una persona involontariamente, quando la si invidiava bonariamente per la sua bellezza o per la sua fortuna; in tal caso bastava che chi esprimeva un giudizio di apprezzamento toccasse la persona a cui era diretta tale invidia e dicesse: “B’n’dich” (benedico) o “Sant’ Martin” (invocazione a San Martino) che il cattivo incantesimo era evitato.

Se il malocchio era fatto volontariamente con il nascosto desiderio di augurare il male a qualcuno o recargli dei danni (“malavuria”, male augurio), il sintomo che si accusava a causa di questo sguardo malevolo era un forte mal di testa. Questo dolore passava, facendo compiere a una persona competente un rituale che è allo stesso tempo diagnostico e terapeutico: “l’affascinatura”.

Questo tipo di pratiche affonda le radici nella notte dei tempi (se ne trovano tracce nella Grecia classica e nell’antica Roma) e in diverse zone del meridione italiano tali pratiche sopravvivono ancora.

Nel Gargano il rito viene eseguito necessariamente da una donna che ha imparato la formula magica nella notte santa della vigilia di Natale da sua madre o da sua nonna o da una zia, intorno alla fiamma di un caminetto o di una candela; formula che non va ripetuta a nessuno, se non alla propria figlia o nipote la notte di Natale per renderla edotta delle parole rituali. Se si aveva bisogno del rito dell’affascinatura, questo doveva essere eseguito da una donna di famiglia, da una “comare di San Giovanni” (madrina di battesimo o cresima o matrimonio) o da una vicina di casa molto fidata.

L’improvvisata fattucchiera (che spesso tanto improvvisata non era) preparava un piattino, possibilmente di rame, con dell’acqua, a cui si potevano aggiungere tre pezzi di carbone e tre chicchi di sale grosso. L’ambiente in cui aveva luogo il rituale di liberazione doveva essere in penombra, rischiarato da una candela bianca (che illuminava la bacinella) e lontano da occhi estranei e indiscreti.

Quando tutto era pronto, il paziente adulto o bambino veniva fatto accomodare su una sedia e la donna iniziava a recitare a fior di labbra la formula di rito, tracciando, per primi, tre segni della croce sul suo petto e, poi, accompagnando la preghiera con tre croci fatte con il pollice della mano destra sulla fronte “dell’invidiato”. Il tutto si ripeteva per tre volte, alternando la preghiera alla caduta di tre gocce di olio di oliva nel piattino.

Nell’olio si intingeva il dito indice sinistro e si lasciavano poi cadere le gocce. Se le gocce versate nell’acqua restavano inalterate e intere non era malocchio e allora si doveva cercare un rimedio medico o fitoterapeutico alla cefalea, ma se l’olio si “scioglieva”, ossia si allargava nel piattino, era malocchio, secondo varie tipologie. Se le gocce d’olio si allargavano man mano completamente fino ai bordi del piattino, era un malocchio “pesante”, ossia forte ed era stato fatto da qualcuno che invidiava molto; se le gocce si allargavano poco sulla superficie, era “occhiatura”, malocchio leggero; se le gocce si riunivano due a due, era una coppia di persone che ti faceva il malocchio; se accanto a una goccia grande si attaccava una piccola era stata una donna a invidiare, perché si era formato “l’orecchino”.

Questo rito era contro il malocchio di primo grado, ma ce n’era un altro chiamato “f’rrat” (ferrato) per scongiurare il malocchio di secondo grado, quello fatto da chi vuole augurarti molto male.

Nel caso che le gocce di olio versate nel piattino “scomparivano” immediatamente, si doveva ripetere il rito. Per eliminare questa emicrania da malocchio di secondo grado era necessario che nel piattino fosse immerso un oggetto metallico, in genere forbici o lama di coltello e il paziente doveva, a sua volta, stringere in mano un oggetto di ferro, come una chiave o un chiodo. Si credeva che anche chi voleva farti un malocchio grave avesse in mano un oggetto di ferro, per rendere ancora più efficace il suo malaugurio.

Questo rito ferrato era uguale nella formula al malocchio semplice, ma alla fine per controprova si spegneva un fiammifero di legno nel piattino: se le ultime gocce versate non si allargavano più con il calore, il malocchio era vinto e il mal di testa sparito. Questo rito, spesso, per un processo di autosuggestione si dimostrava valido e quindi faceva passare il mal di testa per davvero.

Nel resto della Puglia e in altre regioni del meridione esistono alcune varianti ma il rito, in buona sostanza, rimane lo stesso.

Stabilito attraverso questi metodi che attorno alla persona c’erano influssi malefici, si poteva ricorrere al “contromalocchio” per neutralizzare completamente il fluido negativo. In un pentolino di coccio si mettevano: 7 foglie di alloro, 7 foglie di olivo, 7 chicchi di grano, 7 chicchi di sale grosso, 1 pizzico di verbena essiccata e 27 cucchiai di alcol; usando fiammiferi di legno si dava fuoco e si faceva ardere fino a spontaneo esaurimento. L’operazione andava fatta a mezzanotte durante il plenilunio. La cenere che restava nel piattino doveva essere gettata in acqua corrente. Questo metodo serviva a togliere tutte le negatività.

Finora è stato descritto il malocchio in generale, quello che attacca la persona nel fisico e nel morale. Esisteva invece una sorta di malocchio che veniva esercitato esclusivamente nelle questioni d’amore e che era dovuto al risentimento di un innamorato respinto o di una rivale. Questo maleficio intaccava l’accordo tra gli innamorati e causava la loro separazione. Per capire se una persona ricambiava il nostro amore o se c’era una terza persona che lo ostacolava, si ricorreva al metodo della mela.

Si prendeva una mela, la si tagliava in due e si svuotava del torsolo. Su un bigliettino si scriveva il proprio nome e quello dell’amato, si piegava e si metteva all’interno assieme al carbone di olivo, poi si legava con tre nastri: uno bianco, uno giallo e uno rosso. Si poneva la mela in un pentolino di rame e lo si lasciava per 9 notti sotto il proprio letto.

Alla mezzanotte del nono giorno si apriva e si esaminava l’interno: se tutto era intatto, non c’era malocchio sulla coppia, altrimenti il responso era negativo. Ma come si combatteva il malocchio d’amore? In un piccolo braciere di rame si mettevano: un petalo di rosa, una foglia di cardo, un pizzico di verbena, un pizzico di carbone di olivo e 7 grani di sale grosso. Si ricopriva il tutto di alcol e si dava fuoco con un fiammifero di legno e si lasciava ardere.

Quindi, si raccoglieva la cenere raffreddata in un sacchetto bianco e lo si portava per 9 giorni e 9 notti addosso, a contatto con la pelle. In seguito, si poteva mettere il sacchetto sotto il cuscino, insieme alla foto dell’amato o a un suo oggetto personale e sarebbe servito a proteggere il rapporto da influenze negative.

Sarà bene ricordare la preparazione del carbone di olivo che entra negli ingredienti del contromalocchio. Si raccoglieva un ramo di olivo o anche di alaterno

(albero di “lantern”, i cui frutti, detti giuggiole o trignole, erano un tempo commestibili) e, dopo averlo messo in un recipiente di rame, si dava fuoco e si lasciava ardere fino a che diventasse brace. Mentre era ancora rossa, si spegneva la brace con acqua e sale; si formava una sostanza nerastra che asciugata somigliava al carbone.

Come già specificato, la credenza del malocchio è molto antica e la pratica della “affascinatura” è ormai quasi dimenticata ma ancora diffusa tra le persone più anziane del Gargano.

Da notare nelle ritualità sopra esposte l’importanza degli ingredienti, tutti con significati simbolici specifici, la necessità della figura femminile (ancestrale protettrice del focolare domestico) e anche i numeri utilizzati: l’1, il 3, il 7, il 9 oppure una loro combinazione e tutti dispari.

Approfondiremo questi aspetti in altri articoli.

Foto e archivio di Giovanni BARRELLA

Bibliografia: Anna Lucia Di Nauta, Magia e Medicina alternativa nella tradizione popolare e religiosa del Gargano, Claudio Grenzi Editore, 2004

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