Storia

Diario di un viaggio attraverso le antiche vie del Gargano

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DIARIO DI UN VIAGGIO ATTRAVERSO LE ANTICHE VIE DEL GARGANO.

Il Gargano appare, ancora oggi, come un’isola dentro la terraferma: il mare Adriatico lo cinge a nord e a est, i fiumi Fortore e Candelaro lo delimitano a ovest e a sud, isolandolo, in un certo senso, dal Tavoliere. Questo isolamento geografico, che fu barriera e rifugio, ha plasmato la storia delle comunità che lo hanno abitato sin dal Paleolitico. Salendo lungo i suoi sentieri, si percepisce la stratificazione di millenni, come se le pietre custodissero voci che parlano di pastori, mercanti, pellegrini, e persino divinità.

Le antiche vie del Gargano non erano semplici percorsi di collegamento: erano arterie vitali, attraverso cui passavano greggi in transumanza, merci preziose, parole di fede, e riti che intrecciavano economia e sacralità. Ogni pista, ogni valle, ogni grotta racconta una doppia funzione: utilitaria e rituale. Si trasportava legna, selce, acqua; ma nello stesso tempo si officiavano cerimonie, si invocava protezione, si marchiava la roccia con segni che erano preghiere scolpite.

Uno dei luoghi più emblematici è la Valle di Campo di Pietra, porta d’accesso al Gargano da occidente. Qui una grotta conserva petroglifi preistorici: figure stilizzate, simboli antropomorfi, segni di un linguaggio sacro che sfugge alla nostra comprensione, ma che ci dice quanto l’uomo abbia sempre cercato il contatto con il divino attraverso la pietra. Non lontano, le piste convergono dal ponte sul Fortore, da Ripalta, da Coppa di Rose: zone abitate sin dal Neolitico, poi intensamente frequentate nell’età del Rame e del Bronzo. Campo di Pietra era dunque crocevia, snodo di culture, piazza naturale in cui le comunità si incontravano e si riconoscevano in simboli comuni.

Proseguendo, il viaggiatore incontra la Valle Scura, detta anche “Valle dei Pellegrini”. Qui gli sgrottati, adattati dall’uomo, diventavano rifugi per pastori, ma anche luoghi di culto. Le pareti conservano incisioni: croci, lettere, segni enigmatici, e persino raffigurazioni di “compagnie” di pellegrini con crocefissi e cavalli. Una grotta presenta un altare rupestre: prova tangibile di rituali che hanno attraversato epoche, dal preistorico al medievale. Ancora oggi, osservando quelle tracce, sembra di udire il passo lento dei pellegrini, il bisbiglio delle preghiere, l’odore acre delle torce consumate.

Accanto a questi luoghi, le vie si allungano verso nord, parallele alla costa adriatica. Si percorrono gli stessi tracciati che in epoca medievale collegavano Vieste, Rodi, Peschici, ma che già nel Neolitico erano la “via della selce”: dai giacimenti di Defensola e dalle miniere di Sfinalicchio, la selce partiva come oro grigio, modellata in lame e punte, e raggiungeva insediamenti lontani. Ancora oggi, nelle grotte di quella costa, compaiono incisioni di bucrani e figure fungiformi: simboli totemici, legati al toro e alla fertilità, tracce di un culto che sopravvive per millenni.

Non meno suggestivo è l’itinerario meridionale, lungo il fiume Candelaro. Qui transitavano i pellegrini diretti a Monte Sant’Angelo, e la via stessa veniva chiamata “Francesca”. Serafino Razzi, domenicano, ne descrive il viaggio nel 1576: da Ripalta ad Apricena, fino a Castelpagano e oltre. Ma sotto le sue parole si avverte il respiro più antico dei siti preistorici disseminati lungo il percorso: Mezzana della Quercia, Valle Santa Lucia, il dolmen di Ripa di Sasso, e infine i complessi rupestri di Pulsano, dove eremi e grotte mantenevano vivo il culto dell’acqua e della pietra.

Ed ecco che le valli si rivelano non solo vie di transito, ma veri e propri corridoi sacri. La Valle di Stignano e la Valle dell’Inferno mostrano insediamenti “gemini” (a specchio, in posizione simmetrica) posti a guardia degli ingressi, schema tipico dell’età dei Metalli. I pianori dominanti controllavano le piste e custodivano grotte votive: coppelle, altari scavati nella roccia, pitture ad ocra rossa. Luoghi in cui la transumanza si intrecciava a riti propiziatori, in cui si pregava per sopravvivere ai lupi, ai briganti, ai fulmini, o semplicemente per invocare il ritorno a casa.

Il viaggio culmina inevitabilmente a Monte Sant’Angelo, nella grotta micaelica. Qui, secondo la leggenda, l’Arcangelo stesso consacrò la cavità, dichiarandola sacra. Ma la narrazione cristiana si innesta su una tradizione più antica: quella delle grotte come grembo della madre terra, luogo del sacro fin dal Neolitico. E il toro, animale guida dell’Apparitio, altro non è che la trasfigurazione di un simbolo preistorico, inciso da mani ignote nelle grotte di Campo di Pietra, Sfinalicchio, Monticelli. La continuità è sorprendente: dal bucranio preistorico al toro aureolato dell’iconografia medievale, lo stesso simbolo attraversa epoche e religioni, mutando pelle ma non significato.

Viaggiare oggi lungo queste vie significa camminare in bilico tra storia e mito. Ogni passo è un ponte che unisce l’utile al sacro, la fatica del pastore alla preghiera del pellegrino, il commercio del mercante al silenzio del monaco. Il Gargano appare così: un laboratorio a cielo aperto, in cui l’archeologia non è solo scavo e datazione, ma narrazione viva. Ogni grotta, ogni incisione, ogni pietra diventa parola in un grande diario corale, scritto dall’uomo e dal tempo, che ancora oggi aspetta di essere letto da chi percorre questi antichi sentieri.

Archivio e alcune foto: Giovanni BARRELLA.

Fonte e immagini: “Annotazioni sulle vie antiche e medievali dei pastori, dei pellegrini e dei mercanti nel Gargano”, Armando Gravina, 39° Convegno Nazionale sulla Preistoria – Protostoria – Storia della Daunia, San Severo 2019

Fonte GarganodaScoprire – Pagina Facebook

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