San Michele Arcangelo: apparizioni, miracoli e leggende

Ogni 29 settembre, giorno in cui si celebra San Michele Arcangelo, migliaia di fedeli e visitatori risalgono ancora le antiche mulattiere e i sentieri del Gargano, seguendo il cammino dei pellegrini medievali. Alcuni a piedi nudi, altri inginocchiati, tutti mossi dalla stessa devozione che secoli fa animava uomini e donne in cerca di protezione e miracoli. In questo articolo ripercorreremo le quattro apparizioni dell’Arcangelo e racconteremo le leggende, le tradizioni e le usanze che, intrecciandosi con la storia, continuano a vivere sulle sommità di Monte Sant’Angelo.
Le Quattro Apparizioni di San Michele Arcangelo
- I. Il Toro e la Grotta
In un’epoca remota, quando le montagne della Puglia si ergevano selvagge e impervie, vi era un uomo di grande ricchezza e possidente di nome Gargano. I suoi armenti pascolavano tra le rocce scoscese del monte, e tra essi spiccava un toro fiero e solitario, che mai tollerava la compagnia dei simili.
Un giorno, al ritorno del gregge, il toro non fece ritorno alla stalla. Il padrone, animato da un impeto d’ira, radunò numerosi servi e per tre giorni scandagliò ogni anfratto del monte. Alla fine, lo scorse davanti a una grotta, come se l’oscura apertura lo chiamasse.
Con gesto deciso, Gargano scoccò una freccia avvelenata, ma il destino volle che essa, deviata dal vento, ritornasse e lo colpisse. Sbalordito, l’uomo cercò consiglio presso il vescovo della città. Dopo tre giorni di digiuno e preghiera, l’Arcangelo Michele apparve al vescovo, avvolto in luce ineffabile:
“Hai fatto bene a cercare ciò che agli uomini è nascosto. Tutto ciò avviene per mia volontà. Questa grotta è sacra, e io ne sarò custode. Là dove la roccia si apre, i peccati degli uomini saranno perdonati, e quanto qui sarà chiesto nella preghiera sarà esaudito. Va’, dunque, e consacra questo luogo al culto cristiano.”
Il vescovo esitò, temendo l’eco dei culti pagani che a lungo avevano abitato quelle pendici, ma infine si persuase della volontà celeste.
- II. La Battaglia e la Vittoria
Anni dopo, l’ombra della guerra si stese sulle terre pugliesi. I Bizantini minacciavano il santuario, e Grimoaldo I, duca di Benevento, radunò le sue truppe per difendere la grotta sacra. La notte prima dello scontro, il vescovo Lorenzo Maiorano ricevette una visione: Michele apparve, e la sua voce echeggiò solenne e potente:
“Le preghiere sono state esaudite. Io sarò presente. Date battaglia all’ora quarta del giorno.”
All’alba, il fragore delle armi si unì al tuono e alle folgori: la natura stessa sembrava partecipare al miracolo. E Grimoaldo, con il favore divino, riportò la vittoria. Da quel giorno, l’8 maggio fu consacrato alla memoria di Michele, legando il culto dell’Arcangelo al popolo longobardo.
- III. La Dedicazione della Grotta
Dopo la vittoria, i Sipontini esitavano sul da farsi. Nel 493, il vescovo Maiorano decise di consacrare la grotta, confortato dal parere di papa Gelasio I. Ma la notte precedente, Michele apparve ancora:
“Non siete voi a consacrare la Basilica da me costruita. Io l’ho fondata e consacrata. Entrate e pregate sotto la mia protezione.”
Il vescovo, con altri sette vescovi pugliesi, si avviò in processione lungo il sentiero del monte. Alcune aquile, spiegando le ali maestose, proteggevano i pellegrini dai raggi del sole. Giunti alla grotta, trovarono un altare rozzo, coperto da pallio vermiglio e sormontato da croce, e nella roccia l’orma del piede di Michele, impresso come sigillo divino.
Il vescovo vi celebrò la prima Eucaristia: era il 29 settembre, e la grotta ricevette il titolo di “Celeste Basilica”, unico luogo non consacrato da mani d’uomo.
- IV. La Peste e le Pietre Benedette
Era l’anno 1656, e una pestilenza feroce minacciava le città dell’Italia meridionale. L’arcivescovo Alfonso Puccinelli, disperato, si rivolse a Michele con preghiere e digiuni, depose nella statua dell’Arcangelo una supplica scritta a nome di tutta la città.
Nella notte del 22 settembre, Michele apparve al vescovo in un fulgore abbagliante, e ordinò di benedire le pietre della grotta incidendovi la croce e le lettere M.A. Chi avesse custodito tali pietre sarebbe stato protetto dalla peste.
E la città fu liberata: coloro che portarono le pietre con sé, ovunque si trovassero, furono preservati. In segno di eterna gratitudine, Puccinelli fece erigere un monumento a Michele nella piazza della città, con l’iscrizione latina:
“Al Principe degli Angeli, Vincitore della Peste, Patrono e Custode, monumento di eterna gratitudine Alfonso Puccinelli 1656.”
San Michele Arcangelo: tradizioni, usanze e leggende
Sin dal Medioevo i pellegrini affrontavano mulattiere e sentieri impervi, salendo la montagna a piedi nudi o inginocchiati, come per avvicinare il loro spirito al divino. Nella pietra della Grotta, là dove oggi si erge la solenne statua, si conserva l’orma del piede dell’Arcangelo, lasciata in una delle sue apparizioni. Chi vi posava lo sguardo, chi vi poggiava la mano o il ginocchio, sentiva un fremito percorrere il corpo e il cuore: un legame indissolubile con il custode celeste del monte. Per generazioni, quell’impronta fu simbolo di speranza, di forza, di miracolo, richiamando fedeli da ogni angolo d’Europa come falene attratte da una luce lontana.
Negli anni a venire, sull’impronta fu posta la statua di San Michele, armata di spada e di corazza scintillante, vigile e maestosa. Il popolo narrava che nelle notti di pericolo la statua si muovesse appena, come a vegliare sui pellegrini e sulla città. Si diceva che chi osasse profanarla o spostarla avrebbe scatenato calamità, perfino la fine del mondo. Ancora, le cronache popolari tramandano un fenomeno straordinario: dall’alto della Grotta cadeva una pioggia sottile che i fedeli percepivano sulle spalle e sul viso, senza però bagnarsi, quasi fosse la benedizione stessa dell’Arcangelo che scendeva a lambire i pellegrini.
Con l’avvicinarsi del 29 settembre, la cittadina si trasformava: un fermento di vita e devozione si riversava nelle strade. Pellegrini provenienti dai villaggi vicini e dai territori più lontani percorrevano le antiche vie, portando candele, ex voto e piccoli doni. Le processioni, illuminate da torce e luminarie, si snodavano lungo la scalinata della Grotta, accompagnate da inni sacri, tamburi e canti popolari. La gente del posto accoglieva i viandanti con ospitalità calorosa, partecipando ai riti con canti, suoni e gesti di devozione, rinnovando una tradizione che affondava le radici in epoche ormai remote.
I pellegrini osservavano digiuni, veglie notturne e penitenze durante la salita; le processioni erano arricchite da figuranti in costume storico, che ricordavano le apparizioni dell’Arcangelo e la vittoria dei Longobardi, trasformando la festa in un intreccio di storia, leggenda e fede, dove il tempo sembrava sospeso tra il passato e l’eterno.