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Tresoldi e le cattedrali metalliche: “Un disegno nel paesaggio”

È passato poco più di un anno da quando Edoardo Tresoldi, originario di Cambiago, un piccolo centro vicino Milano, ha raggiunto una straordinaria quanto inattesa notorietà internazionale per il suo intervento di ricostruzione della Basilica paleocristiana di Siponto, nei pressi di Manfredonia. Le immagini della sua installazione ambientale, capace di disegnare lo spazio, in aperto dialogo con il contesto archeologico e naturale, le abbiamo viste diffondersi a macchia d’olio su riviste, quotidiani e social network. In breve tempo l’opera di Edoardo è divenuta l’opera di tutti, un luogo potente, teatrale, in grado di coinvolgere emotivamente il pubblico più ampio. A partire dagli abitanti della zona che hanno immediatamente accolto una grande opera d’arte contemporanea come parte integrante del loro paesaggio fisico e culturale, e questo capita di rado.

Tresoldi ha solo 29 anni, ma da quel momento la sua vita è cambiata radicalmente, da un giorno all’altro. Le committenze si sono moltiplicate in ogni parte del mondo, dagli Stati Uniti agli Emirati Arabi; a gennaio è stato nominato dalla prestigiosa rivista Forbes tra i 30 ‘influencer under 30’ della categoria ‘Arts’, eppure Edoardo continua ad arrampicarsi e costruire con le proprie mani le sue grandi e immaginifiche strutture architettoniche in rete metallica. L’entusiasmo è sempre più forte, così come la sua necessità di sperimentare nuove soluzioni, tecniche e materiali, di confrontarsi con altre discipline per nutrire la ricerca che non deve fermarsi mai. Il tutto con un gruppo di lavoro consolidato, per lo più composto da amici, che è destinato a crescere di volta in volta, per aumentare le competenze. Dopo l’esperienza della scorsa estate a Eau Claire in Wisconsin, in cui l’installazione Baroque è stata scenografia e parte integrante della performance sonora dell’organista James McVinnie, Edoardo ha appena concluso due nuovi grandi interventi ad Abu Dhabi e Al Dhaid. Lo abbiamo incontrato per una lunga conversazione, a partire dalle primissime esperienze.

Sei partito da un piccolo paese vicino Milano e ora sei stato nominato influencer internazionale da Forbes. Mi racconti il tuo percorso?

“Ho iniziato a interessarmi all’arte prestissimo, a nove anni ero già nello studio del pittore milanese Mario Straforini, per prendere lezioni di disegno. Poi ho fatto l’Istituto d’Arte a Monza dove, anche grazie alla vicinanza con il distretto del design, ho appreso un metodo progettuale molto rigoroso, come può essere quello di un architetto. Ma la vera palestra è stato il lavoro che ho iniziato nel 2009 come scenografo per il cinema, a Roma. Qui ho imparato tutto. Sul campo ho acquisito le tecniche e compreso come scegliere e usare i materiali, come raggiungere un obiettivo nei giusti tempi e lavorare di squadra. Ero molto contento di questo lavoro che mi consentiva di guadagnare anche bene, ma credo che la svolta sia arrivata quando ho conosciuto il pittore e street artist Gonzalo Borondo, per me ormai un fratello. Lui mi ha spinto a coltivare una ricerca personale che portavo avanti in silenzio, senza mostrarla a nessuno. Ha capito che la mia strada era un’altra, quello che avevo appreso nel cinema poteva diventare la base per un percorso artistico indipendente”.

La scena dell’urban art è quella in cui ti sei formato, partecipando a festival in tutto il mondo. Sei ancora legato a questa esperienza?

“Certo! I miei amici sono Tellas, Sbagliato, Alberonero, Andreco, Agostino Iacurci. È con loro che continuo a confrontarmi, scambiare idee, discutere per ore di arte e molto altro, perché intervenire nello spazio pubblico è una responsabilità importante, nei confronti del luogo e delle persone che lo vivono. Con Borondo poi ho anche avuto diverse occasioni di collaborazione. All’inizio sono stato suo assistente, poi, nel 2015, abbiamo fatto insieme l’opera Chained all’Università Bicocca di Milano: ho costruito una figura metallica in rete che usciva dal suo dipinto sul muro, trasformando la bidimensionalità della parete in una scultura articolata nello spazio. Siamo tutti artisti nomadi, ci spostiamo in ogni parte del mondo, ma Roma è il luogo in cui torniamo e ci incontriamo. La scena dell’arte urbana mi ha dato l’occasione di sviluppare liberamente il mio lavoro, il che non sarebbe stato possibile se fossi stato imbrigliato dalle regole del mercato tradizionale dell’arte. Questa indipendenza mi ha permesso di rischiare. Come sai, senza il rischio, senza la sperimentazione, non può esserci avanzamento nella ricerca artistica”.

I tuoi primi lavori erano semplici figure umane realizzate con la rete metallica che occupavano lo spazio della città. Nel tempo la rete ti ha permesso di costruire opere con valenza architettonica, come la struttura per Marina di Camerota o per il Secret Garden Party in UK. Come studi il rapporto con il contesto?

“La forma scultorea, essendo tridimensionale, non può far a meno di aprire un rapporto con lo spazio. Poi dato che la mia ricerca si basa sul concetto di trasparenza, il rapporto con il contesto è ancora più essenziale. La mia opera, anziché escludere, vuole includere l’intorno. La tecnica della rete metallica, che ho acquisito nel cinema, mi consente di creare opere che siano disegni nello spazio, capaci di dialogare con il contesto, piuttosto che occuparlo, puntando a una dimensione immateriale e immaginifica. L’architettura poi mi interessa molto perché puoi viverla, abitarla, entrarci in relazione diretta anche con il corpo”.

Lo scorso anno a Siponto, in Puglia, grazie a una committenza pubblica illuminata hai contribuito a realizzare un’operazione innovativa di relazione tra patrimonio archeologico e arte contemporanea, facendo tornare alla luce una basilica paleocristiana. Questa opera ha segnato un punto di svolta nel tuo percorso, ma in un certo senso anche nel modo di intendere la ricostruzione del patrimonio, creando un importante precedente. Come hai agito?

“Per prima cosa ho studiato la documentazione storica del luogo con l’ausilio di archeologi e studiosi. Man mano che raccoglievo informazioni e assimilavo queste tematiche per me assolutamente nuove, capivo che dovevo suggerire con il mio lavoro una specie di riapparizione di questo straordinario edificio nel luogo che originariamente lo ospitava. Non volevo ricostruirlo fedelmente, non avrebbe avuto senso. Volevo suggerire la sua presenza, disegnandola nell’aria, per mantenere intatte le relazioni con il paesaggio ospitante. Un intervento contemporaneo su un sito archeologico permette di immettere dei valori attuali e costruire un’operazione culturale. L’idea è stata quella di disegnare una nuova icona capace di dialogare con l’antico. In questo modo siamo riusciti a dare vita ad un progetto innovativo di conservazione dinamica”.

Da quando è stata inaugurata l’installazione di Siponto, il parco archeologico ha avuto un boom di visitatori, senza precedenti. Secondo te qual è la ragione di un così grande successo?

“La più grande soddisfazione, per me e per la committenza, è stata riuscire ad avvicinare anche un pubblico generalista al tema dell’archeologia, il che non era affatto scontato. Io ho sempre creduto che l’arte deve essere diretta, deve parlare un linguaggio chiaro e comprensibile a tutti. Il mio obiettivo era quello di rendere più democratico l’accesso all’archeologia, al di là degli addetti ai lavori. Per apprezzare l’installazione che abbiamo costruito non sono necessarie particolari nozioni culturali. I pugliesi hanno subito capito che non era un’operazione calata dall’alto, ma teneva conto delle persone, delle loro tradizioni e del patrimonio della regione, valorizzandolo. Il successo ha avuto importanti ricadute sia dal punto di vista dell’immagine che dal punto di vista economico, con la crescita esponenziale del turismo in una zona finora poco considerata. L’area archeologica in pochissimo tempo è diventata un luogo conosciuto da tutti, e non solo in Italia”.

Dopo l’esperienza pugliese, il tuo lavoro ha fatto un ulteriore salto in avanti. Penso all’opera Baroque che hai realizzato per il festival di musica indie Eaux Claires nel Winsconsin. Qui la scorsa estate hai costruito una struttura architettonica integrata a un organo, per ospitare la performance musicale di James McVinnie. Come è andata?

“Ogni nuovo lavoro che affronto è una nuova sfida. Cerco sempre di pormi in condizioni differenti rispetto alle precedenti, in modo da poter sperimentare nuove soluzioni dal punto di vista delle tecniche e del linguaggio, per far evolvere la mia ricerca. Per me sono essenziali le contaminazioni con altre discipline, a Siponto ho avuto modo di lavorare con archeologi e restauratori, qui con grandi musicisti. Baroque non voleva essere una semplice scenografia. Come sai, per me è essenziale la relazione tra opera, spettatori e paesaggio. Qui si è aggiunto un altro elemento: l’opera doveva essere il ponte di comunicazione tra gli spettatori e il musicista, solo con la riuscita di questo rapporto, l’esperienza è completa. Nel Winsconsin ho avuto l’occasione incredibile di lavorare a stretto contatto con McVinnie, che vanta collaborazioni con Arcade Fire e Martin Creed solo per fare un paio di esempi”.

In che modo ti sei relazionato alla musica?

“Ho dovuto progettare un luogo che potesse ospitare in uno spazio aperto uno strumento come l’organo, tradizionalmente parte integrante di un’architettura, di un ambiente chiuso. Con Baroque abbiamo potuto portare il suono sacrale di questo strumento all’interno di un contesto naturale. Il pubblico poteva fare un’esperienza della performance musicale diversa dal solito, perché la struttura in rete metallica, grazie alla sua trasparenza, permette di guardare lo spettacolo a 360°. Sono felice perché l’installazione, nata per essere effimera, è stata acquisita come opera ambientale permanente, destinata ad uno dei parchi in cui scorre il fiume Chippewa. Anche in questo caso, l’opera è divenuta parte del paesaggio locale”.

Che cos’è per te la sperimentazione?

“Ci tengo a essere sempre libero, non voglio essere etichettato per poter cambiare sempre campo di azione, per lasciarmi contaminare e contaminare altre discipline. Questo è senza dubbio lo stimolo più importante. Credo sia essenziale per un artista provare a interpretare il cambiamento veloce e costante del mondo contemporaneo, in tutti i suoi aspetti. Il cuore della ricerca sta nel codificare i linguaggi più attuali e renderli fruibili al pubblico. Quando qualcuno vede le mie architetture di rete, pensa subito ai disegni wireframe prodotti dal computer. L’opera sembra occupare lo spazio virtualmente, come un disegno, ma in realtà è più che concreta”.

Quali sono i tuoi riferimenti culturali?

“Ho riferimenti molto eterogenei, vado dai classici come Michelangelo, Borromini, Bernini o Palladio, che ho studiato molto in passato, ma sono anche estremamente legato alle teorie paesaggistiche di studiosi come Christian Norberg-Schulz. E ancora, ovviamente, alle esperienze di Land Art”.

Cosa c’è all’orizzonte, quali sono i tuoi nuovi obiettivi dal punto di vista della ricerca?

“Ci sono molte strade che vorrei iniziare a percorrere, a partire dalla sperimentazione di nuovi materiali, legati al paesaggio e al linguaggio architettonico. Inoltre sto iniziando un percorso di produzione di opere d’arte ambientale di quegli artisti con cui ho condiviso buona parte del mio percorso, come Borondo o Alberonero o Sbagliato. Il cammino di analisi, ricerca e intervento sul territorio che sto portando avanti con loro prevede la realizzazione di opere, permanenti o temporanee, che non hanno un mercato specifico. Spesso si tratta di investimenti a perdere che nessuno vuole affrontare. Inoltre vorrei usare la mia esperienza come ariete per promuovere altri giovani autori che ritengo interessanti”.

Puoi accennarmi qualcosa della tua ultima esperienza negli Emirati Arabi?

“Sono stato negli Emirati per seguire due lavori molto importanti. Uno per la famiglia reale di Abu Dhabi e un altro per il sito archeologico di Al Dhaid. Questo è un luogo in cui non c’è la tradizione di restauro che abbiamo in Italia, ma quando hanno visto il mio intervento per Siponto mi hanno invitato a realizzare qualcosa di simile anche per loro. Ho dovuto creare un sistema nuovo con la rete, che tenesse conto di condizioni climatiche e paesaggistiche molto estreme. Immagina che siamo nel deserto, immersi nella sabbia, con temperature che raggiungono anche i 60 gradi”.

Tornerai a lavorare in Italia?

“Il mio prossimo lavoro italiano sarà a Sapri, per il festival Derive, un progetto sperimentale che vedrà collaborare musicisti, poeti e artisti in luoghi incredibili. Sto pensando a una installazione temporanea legata a una performance musicale, la cui presentazione è prevista per il 21 luglio”.

 

tratto da La Repubblica

link completo: http://www.repubblica.it/cultura/2017/05/15/news/edoardo_tresoldi-162340465/

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