Museo di Manfredonia: bisognerà attendere ancora per la fruizione completa

Come si legge sul sito del MiBACT (Ministero per i Beni e le Attività Culturali), Il Museo Archeologico Nazionale di Manfredonia, ospitato all’interno del Castello svevo, custodisce i reperti archeologici “più noti e significativi del territorio della Capitanata e dell’area garganica”, tra cui le stele daunie. Eppure, ancora buona parte di questo importante museo è chiuso ormai da 5 anni e, stando all’ultima comunicazione della Soprintendenza che annuncia nuovi lavori, lo sarà almeno per un altro anno. Un vero peccato e soprattutto un torto alla nostra storia, poiché le numerosissime stele daunie (o daune) che vi sono custodite non solo sono sottratte alla fruizione di turisti e visitatori, ma anche degli studiosi che ancora cercano di decifrarne gli affascinanti misteri.
Forse non tutti sanno che la fiorente civiltà sviluppatasi nel nostro territorio qualche millennio fa aveva degli aspetti così originali ed unici da essere denominata ‘sipontiana’, alla stregua di quella etrusca o fenicia o greca. La storia c’insegna che le prime e più grandi civiltà si svilupparono accanto ai fiumi (vedi la Mesopotamia) ed è proprio quello che accadde per la sipontiana.
Intorno a tremila anni fa, infatti, buona parte dell’attuale provincia di Foggia era una laguna in cui affioravano isolotti. Siponto non a caso era denominata il porto di Arpi (l’antica Foggia) e non solo per questioni convenzionali, ma perché, appunto, la Capitanata era attraversata da corsi d’acqua che trovavano il loro sbocco più grande nell’attuale golfo di Manfredonia. Per intenderci, ancora fino all’Ottocento il Candelaro, che oggi sembra essere più un rigagnolo che un fiume, era navigabile. In pratica, si poteva giungere in barca da Foggia a Manfredonia ed era questo un mezzo molto utilizzato per trasportare le merci.
In agro sipontino, nell’area compresa tra i fiumi Candelaro e Cervaro, denominata Cupola-Beccarini dal nome delle due masserie più importanti, negli anni ’60 l’archeologo Silvio Ferri in missione sul Gargano per conto dell’Università di Pisa, rinvenne circa duemila stele di pietra incise e dipinte con figurazioni per lo più antropomorfiche risalenti al VII – VI a.C., la traccia di una popolazione che non ha eguali nel resto del mondo. Ferri fece un gran lavoro per recuperare le stele, poiché molte erano state utilizzate per pavimentare stalle o per creare muretti a secco.
Di forma per lo più rettangolare, alte circa 60 centimetri, larghe da 40 a 50 e spesse da 5 a 10, ciascuna lastra raffigura, in forma schematizzata, un corpo umano; forse si trattava del defunto, con gli avambracci piegati all’altezza della vita, ricoperto da una veste ricca di decorazioni geometriche che raccontano la storia di antiche genti italiche che giungendo dalle regioni balcaniche si fermarono nella laguna tra Siponto e Salpi. Quindi potrebbero essere lapidi, anche se ciò che incuriosisce è che non sono mai state rinvenute su sepolcri. In conclusione, le stele daune non solo racchiudono i segreti dei nostri progenitori sipontini (chi erano? da dove venivano? come vivevano?), ma come affermò lo storico Raffaele Petrera nei primi anni ’70, rivestono un interesse storico per l’intera Italia poiché “aprono nuovi orizzonti sull’antica civiltà del nostro Paese”. Orizzonti ancora abbondantemente inesplorati.
L’auspicio è che si possa al più presto tornare a fruire del museo nella sua interezza e che gli studiosi possano tornare ad appassionarsene, affinché un patrimonio unico in Europa e di incommensurabile valore storico non torni nell’oblio.
Maria Teresa Valente