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Dalle pettole alla farrata, storia del rustico della tradizione sipontina

La Farrata, rustico fragrante, della tradizione carnevalesca sipontina, ha origini che si perdono nella notte dei tempi. Il farro (dal latino far) è il primo grano che i pastori nomadi del Medio Oriente coltivavano agli albori della civiltà. Tale pianta frumentaria, che cresceva spontanea, era già nota ai tempi di Omero.

Nella poetica e letteraria traduzione dell’Iliade omerica del 1810 di Vincenzo Monti, nel libro I, 593, è scritto: “… lavar le palme presero il sacro farro, e Crise alzando con la voce, la man, fè questo prego:”.

Il farro, che si diffuse rapidamente nell’Italia arcaica, era coltivato, in quanto più resistente alla siccità e cresceva anche in terreni poco fertili. La sua coltivazione fu mantenuta anche dopo la scoperta del grano in gran parte dell’Italia romana e preromana, per la sua forte capacità di adattamento in condizioni poco favorevoli. Il farro macinato, ridotto in farina, era e costituiva il cibo di tutti.

La farinata di farro (il puls latino) era la base di ogni forma di alimentazione, il pane delle nostre tavole. Esso, il farro, era l’alimento nazionale che si trovava e comprava ovunque. Il poeta latino Orazio, del I sec. A.C., ce ne dà una testimonianza nella satira VI. Così scrive: “incedo solus, percontor quanti holus an far”. Così tradotto: “vado a zonzo da solo, chiedo a quanto vanno i legumi e il farro”. Il farro è alimento base dell’Italia arcaica così come si evince nel libro VII, 171 dell’Eneide virgiliana nella insuperata e melodiosa traduzione di Annibal Caro. Il verso così recita: “gran forme di focacce e di farrate”.

Erano queste sulla tavola trovata da Enea al suo arrivo nel Lazio. Era questo il segno della profezia di Celeno, una delle mitiche Arpie. Come dire che le focacce di farro erano il piatto comune del Lazio arcaico, quello su cui avrebbe regnato poi Saturno, instaurandovi la mitica età del l’oro. Non solo, le stesse farrate, di forma rotonda, preparate con farina di farro, cacio e uova, costituivano i piatti e i vassoi su cui presentare i sacrifici agli dei. E’ appena il caso di ricordare che farro, cacio e uova costituivano il cibo semplice della civiltà arcaica.

Erano le farrate adoperate nei riti sacri. Uno di questi era la “confareatio che si celebrava nel matrimonio: un’offerta a Giove di una focaccia di farro con la pronuncia di formule solenni e di ulteriori atti, che conferivano alla cerimonia un colorito molto antico. Offerte di farro o farina di farro erano presentate agli dei campestri e alla stessa dea Cerere durante le “Feriae sementivae”, i giorni di festa della seminagione. Il poeta latino Ovidio, nei Fasti libro VI, 475, riferisce che focacce di farro “adorea liba” erano offerte dalla “Mater Matuta”, divinità italica del mattino, durante le feste “Matralia”, celebrate in suo onore.
Il farro col sale “mola salsa” era poi il triste viatico di sacrifici cruenti, così come si dice nel libro II, 225 dell’Eneide: “Era già da vicino il giorno orribile in che doveano al sacrifizio offrirmi e già il farro e già il sale e già le bene erano a le mie tempie avvolte.”
Con queste parole il rinnegato Sinone dà avvio al famoso tranello del cavallo di legno, fatto costruire dall’astuto ulisse per la distruzione della maestosa Troia. Ma Roma poi sorse invincivile da quelle rovine fumanti. Le sue armi, al suono delle tube guerriere, avanzavano impetuose, devastando, occupando, spadroneggiando con le sue leggi e la sua lingua, esportando anche i suoi costumi le sue tradizioni, quelle più antiche. Fra queste anche quelle legate all’uso del farro e della farrata nei riti sacri.

Nella piana, a nord del Candelaro, sorgeva l’antica Siponto, esposta agli influssi delle civiltà orientali (i Dauni), a quelli della Magna Grecia.

A volte amica, a volte ostile alla potente Roma, Siponto, affacciata sulle limpide acque dell’Adriatico, conosceva certamente l’uso della farrata, essendole pervenuto dalla civiltà arcaica latina, tramite l’espansione della Roma dominante, accomunata, comunque, quest’ultima con le città sottomesse dal culto degli stessi dei, praticato con gli stessi riti.

Era ed è la farrata preparata con ingredienti semplici: il farro macerato, la ricotta e tuorlo d’uovo, ingredienti delle civiltà arcaiche.

L’antica Siponto, al tempo “degli dei falsi e bugiardi”, ma anche dopo l’avvento del Cristianesimo, ha sempre mantenuto fra le sue ricette culinarie quella della farrata.
L’ha conservata nella Manfredonia, o Nuova Siponto, che la si voglia dire, e per un periodo così fu denominata. Tramandata da oltre duemila anni, la farrata è diventata il rustico prelibato simbolo del Carnevale sipontino. La farrata, forse non è una peculiarità inventata dagli abitanti dell’antichissima Siponto, forse ci proviene dalla tradizione del Lazio arcaico, ma, se anche così fosse, certo è che questo rustico prelibato è sopravvissuto, senza soluzione di continuità, solo da noi.

preparazione delle farrateRustico assai gradevole preparato con ingredienti della civiltà arcaica: grano macerato, ricotta perorina, menta maggiorana, cannella e pepe.
La sfoglia superiore era spalmata di tuorlo d’uovo. E poi cuocerle, le farrate, negli antichi forni a legna, quando questi scendono a basse temperature. La fragranza dell’impasto, contenuto nella sfoglia, che s’indora, è unica nel suo inconfondibile sapore.
Appena sfornate, calde e croccanti, facevano, durante i giorni di carnevale, il giro delle strade e dei cortili, attraverso i gridi di ragazzi incappottati, che già dalle cinque del mattino, così come viene riferito in una delle tante riuscitissime canzoni in vernacolo del poeta Michele Racioppa “A farrète”.

I canti dei monelli, intenti a vendere, svegliavano festosamente i Sipontini. Le donne si affacciavano dai sottani a comprare, per mangiarle appena sfornate, e tenute calde in sporte ben coperte. Ci si svegliava al canto dei piccoli venditori, che alle prime luci dell’alba avevano già finito la loro vendita.

Le farrate. “pasta degli innamorati” (è sempre il Racioppa a dirlo nella sua canzone), dopo la mezzanotte fanno da sempre il giro delle socie e dei veglioni, immersi nella più travolgente spensieratezza e catturati dal ballo inebriante, sotto una pioggia di coriandoli, con festoni e stelle filanti a fare volte ultracolorate al suono di trombettine deridenti.
Pronti così poi a rifocillarsi con la “regina” del Carnevale Sipontino, la FARRATA, quella degli antichi riti dell’Italia arcaica, sopravvissuta solamente nello spettacolare carnevale di Manfredonia.

LORENZO PRENCIPE

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