Spettacolo Italia

Il wrestling in Italia: 40 anni di show televisivi e leggende sul ring

Dossier esclusivo sul fenomeno del wrestling in Italia: dalle prime cronache di Tony Fusaro negli anni ’80 ai giorni nostri.

[esi adrotate group="1" cache="public" ttl="0"]

Il wrestling, in Italia, non è mai stato soltanto una disciplina sportiva: è stato un fenomeno mediatico che ha attraversato quarant’anni di storia televisiva, modellando immaginari e creando generazioni di appassionati. Dalle cronache pionieristiche di Tony Fusaro negli anni Ottanta, quando arrivavano i primi filmati dal Giappone, al debutto dell’allora WWE sulle reti nazionali con la voce carismatica di Dan Peterson, fino alla stagione pay-tv di Tele+ e Stream (poi Sky) con Luca Franchini e Michele Posa, l’epopea del ring ha segnato palinsesti e passioni. Ci fu un’epoca in cui Hulk Hogan era un eroe più noto di tanti calciatori, e John Cena un idolo dei ragazzini italiani. Poi la tragedia di Chris Benoit segnò una cesura, cambiò il rapporto delle reti generaliste con un prodotto giudicato improvvisamente “scomodo”. Oggi, a distanza di decenni, il wrestling sopravvive soprattutto nello streaming, ma resta un ricordo vivo per chi lo seguiva su Italia 1 nel weekend o acquistava i pay per view tramite il decoder Sky. In questo articolone-dossier ricostruiamo l’intera parabola: le origini, l’ascesa, l’età dell’oro, il declino e l’eredità attuale.

Il wrestling sulle tv italiane — dalle origini agli anni 2000 e oltre

Quando in Italia si cominciò a parlare di wrestling, o meglio di “catch” come lo si chiamava all’epoca, il Paese viveva un clima televisivo completamente diverso da quello odierno. Era il decennio in cui le televisioni private stavano emergendo come alternative alla Rai, e proprio in quell’universo ancora sperimentale trovò spazio un prodotto che sembrava arrivare da un altro pianeta. Non si trattava del calcio, che era già sovrano assoluto, né dei varietà, che dominavano i palinsesti serali: il catch era un intrattenimento muscolare, teatrale, capace di mescolare l’arte marziale con la soap opera. Per molti spettatori italiani la prima finestra su questo mondo fu rappresentata dalle telecronache appassionate di Tony Fusaro, che negli anni Ottanta prestò la propria voce a incontri giapponesi di puroresu. Fusaro, con il suo linguaggio inventivo, trovava nomi italiani per mosse e prese che non avevano ancora un corrispettivo noto: trasformava i voli dalle corde in immagini poetiche, i colpi in espressioni popolari, e soprattutto introdusse al pubblico un gigante carismatico come Antonio Inoki, che divenne presto un nome familiare anche per chi non conosceva la cultura sportiva del Giappone. Era un tempo in cui la televisione faceva da vero e proprio mediatore culturale, e il wrestling era percepito come qualcosa di esotico, lontano, ma irresistibilmente attraente. Gli anni Ottanta furono segnati dalla crescita di reti come Italia 1, che proprio grazie alla sua vocazione giovanile divenne il laboratorio ideale per nuovi linguaggi. Qui, a metà decennio, arrivò quella che all’epoca era la World Wrestling Federation, la WWF, e con essa una serie di personaggi che avrebbero segnato l’immaginario collettivo. L’Italia scoprì che non esisteva solo il catch giapponese: oltreoceano c’era una federazione capace di mettere in scena spettacoli faraonici, con luci, musica e costumi da fumetto. Fu il momento in cui Hulk Hogan entrò per la prima volta nei salotti italiani, seguito da Ultimate Warrior, Macho Man Randy Savage e Andre the Giant. Ma se i volti erano americani, la voce era quella di un italoamericano già amatissimo dal pubblico: Dan Peterson. Peterson, che il pubblico conosceva come allenatore di basket e volto televisivo, fu scelto da Italia 1 come commentatore della WWF. La sua parlata inconfondibile, il suo entusiasmo contagioso e la capacità di rendere comprensibili i nomi e le situazioni trasformarono il wrestling in un evento familiare. Era lui a scandire i momenti cruciali, a sottolineare l’entrata di Hogan, a spiegare le strane alleanze e i tradimenti sul ring. In un’Italia che viveva il fermento dei mondiali di calcio e l’esplosione del consumismo televisivo, la WWF rappresentava una finestra sull’America, un sogno a stelle e strisce fatto di muscoli, storie larger-than-life e un senso di spettacolo totale. Per molti bambini degli anni Ottanta, la domenica mattina significava colazione e wrestling, un appuntamento che valeva quanto i cartoni animati. La programmazione non era lineare come oggi: gli eventi arrivavano spesso con settimane o mesi di ritardo, i Pay Per View come WrestleMania venivano spezzettati e rimontati, e gli incontri erano selezionati per adattarsi agli spazi televisivi italiani. Ma poco importava: ciò che contava era l’emozione. La voce di Peterson si sovrapponeva alle immagini patinate della federazione americana, creando un ibrido che era tutto italiano. Il pubblico imparava a conoscere termini come “body slam” o “suplex” proprio grazie a lui, che li introduceva nel linguaggio comune. Col tempo la WWF cominciò a espandersi anche attraverso il merchandising: action figure, album di figurine, magliette che cominciavano a circolare nei negozi di giocattoli. Era la prima volta che un prodotto di intrattenimento sportivo americano penetrava così profondamente nel mercato italiano. Non era soltanto un programma televisivo: era un fenomeno sociale. L’Hulkamania, la febbre gialla e rossa di Hulk Hogan, arrivò a contaminare anche le scuole italiane, dove i bambini imitavano le mosse viste in tv. Eppure non mancavano polemiche: già allora alcuni genitori e giornali guardavano con sospetto a quello spettacolo così violento, accusandolo di essere diseducativo. Ma la fascinazione era troppo forte, e Italia 1 continuò a proporre il wrestling come parte della sua offerta giovanile. Per la prima volta una rete nazionale apriva spazi costanti a uno sport-spettacolo che nulla aveva a che vedere con il panorama tradizionale. La magia della WWF su Italia 1 raggiunse l’apice nei primi anni Novanta, quando la federazione americana decise di organizzare eventi dal vivo anche in Europa. In Italia, nel 1993, si tenne uno show memorabile al Forum di Assago, trasmesso da Tele+2: un segnale che il prodotto aveva ormai un seguito consolidato. La televisione e il live si fondevano, e i fan italiani potevano finalmente vedere i propri idoli da vicino. Il fenomeno si allargava, diventava comunità. Ma nello stesso periodo, a livello televisivo, cominciarono anche i primi segnali di crisi. Le logiche dei palinsesti mutavano, i costi dei diritti crescevano, e la WWF rischiava di perdere spazio sulla tv in chiaro. Fu proprio questa transizione a segnare l’inizio di una nuova fase: l’approdo alle pay-tv, l’arrivo di Telepiù e poi di Stream, che avrebbero garantito al wrestling un pubblico più fedele ma anche più ristretto. La parabola italiana della federazione americana entrava in una nuova stagione… quella della parabolica! Un lungo periodo fatto di passaggi complessi, ma anche di una crescita di professionalità nel commento e nella qualità della trasmissione. La voce pionieristica di Peterson lasciava spazio a nuovi interpreti, pronti a traghettare il wrestling nell’era digitale. A partire dalla metà degli anni Novanta, la scena mondiale del wrestling stava cambiando con una rapidità sorprendente. La WWF non era più l’unica protagonista incontrastata: nel 1995 la WCW lanciò il proprio show Nitro in prima serata, in diretta, sfidando Raw in una guerra degli ascolti che sarebbe passata alla storia come le Monday Night Wars. In quel momento la WCW riuscì a conquistare spettatori: per 83 settimane consecutive, a partire dal giugno 1996, Nitro batté in ascolti Raw negli Stati Uniti, grazie anche all’onda narrativa del fenomeno nWo (New World Order), con Hulk Hogan che (nella storyline, ovvero, la sceneggiatura) tradiva la WWF per unirsi alla WCW. Questa affermazione non significa che la WCW superò permanentemente la WWF su tutti i fronti, ma quel periodo fu forse il picco in cui la competizione era reale e serrata. Si trattava di un’era in cui la WCW puntava su idee “più adulte”, storyline più oscure, lotte interne di fazione e lanciare talenti come Goldberg, Sting, Nash e Scott Hall: elementi che catturavano l’immaginazione del pubblico desideroso di “rottura” rispetto al wrestling classico. In Italia, la WCW rimase un fenomeno “di nicchia”: nell’autunno del 1999 Italia 1 diede spazio a Nitro il sabato sera nel tardo pomeriggio, con tanto di pubblicità e merchandising conseguente; un esperimento audace. Ma le puntate giungevano in ritardo, i montaggi erano spesso parziali, e la rete non riuscì a dare coerenza narrativa allo show. Questo tentativo — seppur breve — lasciò un imprinting: per qualche anno, molti appassionati cominciarono a chiedersi se non ci fosse un’alternativa alla “solita” WWF. Quell’ombra di competizione internazionale contribuì a rafforzare la percezione che il wrestling fosse qualcosa di vivo e mutante: non più una mera trasposizione americana, bensì un racconto globale che poteva cambiare, evolvere e avere una rinascita in Italia nel prossimo futuro. Dopo la fase pionieristica degli anni ’80, la parentesi pay-tv e la breve comparsa della WCW su Italia 1, il wrestling in Italia conobbe un vero e proprio rinascimento all’inizio degli anni Duemila. È il 2002 quando Italia 1 decide di rilanciare il prodotto con un approccio più accattivante, proponendo WWE Velocity. Non era lo show principale, ma un contenitore di match brevi e riassunti, utile a testare la risposta del pubblico. La risposta fu sorprendente: giovani e giovanissimi tornavano davanti alla tv con l’entusiasmo degli anni Ottanta, segno che il terreno era fertile. Il passo successivo fu decisivo: SmackDown entrò nel palinsesto di Italia 1. All’inizio proposto in seconda serata, lo show raccolse ascolti notevoli, tanto da meritarsi anche collocazioni più visibili. Per diversi anni, una volta alla settimana, milioni di ragazzi italiani si diedero appuntamento con i wrestler più iconici di quella generazione: Undertaker, Kurt Angle, Eddie Guerrero, Rey Mysterio, John Cena. Era l’epoca in cui la WWE aveva smesso di essere “la lotta americana” per diventare un fenomeno popolare, familiare e quotidiano. Contemporaneamente, su Sky andavano in onda Raw e i Pay Per View integrali, sempre con la telecronaca di Michele Posa e Luca Franchini. La differenza rispetto agli anni ’90 era evidente: ora gli spettatori potevano seguire la WWE quasi in contemporanea con gli Stati Uniti, con commenti dedicati e una narrazione coerente. Non più montaggi frammentati, ma lo show completo, così come veniva pensato dalla federazione. Per gli appassionati più fedeli era una rivoluzione, un salto di qualità che trasformò la fruizione da passatempo saltuario a rito settimanale. Gli anni 2004-2007 furono il vero boom. I negozi si riempirono di gadget: magliette, cappellini, action figure e videogiochi. Le riviste specializzate cominciarono a circolare nelle edicole; forum e siti web dedicati nascevano come funghi. La WWE organizzò spettacoli dal vivo in Italia, in arene gremite di fan urlanti: un segnale che il pubblico non si limitava più a guardare, ma voleva vivere l’esperienza in prima persona. Quando John Cena entrava in scena con il suo “You can’t see me”, le gradinate esplodevano. Quando Undertaker calava nella penombra con il rintocco delle campane, il silenzio e il brivido correvano lungo la schiena di migliaia di spettatori. Italia 1 cavalcò l’onda. In certi periodi SmackDown venne spostato addirittura in orari di grande visibilità, segno della fiducia che Mediaset riponeva nel prodotto. Lo show della federazione della famiglia McMahon era diventato una macchina di ascolti e di merchandising, qualcosa che trascendeva il ring. Le scuole erano piene di ragazzi che discutevano di storyline, di rivalità, di titoli vinti e persi come se fosse calcio. Addirittura, alcuni servizi di telefonia offrivano in tempo (quasi) reale le ultime dagli spogliatoi della WWE tramite sms sul proprio cellulare. Il wrestling, per un attimo, riuscì persino a impensierire i colossi dell’intrattenimento televisivo giovanile. Questo boom italiano si intrecciava con quello globale. La WWE stava vivendo una delle stagioni più fortunate: John Cena e Batista erano le nuove star, Triple H consolidava il suo status di veterano, e i Pay Per View macinavano numeri record. Un capitolo particolare fu la creazione di “WWE News”, la trasmissione curata e condotta da Stefano Benzi su Sportitalia dal 2004 al 2009. Non era un semplice contenitore di immagini, ma un vero spazio editoriale con interviste esclusive, rubriche dedicate come Fanatics e collegamenti diretti con le tournée della WWE nel nostro Paese. Superstars come Ken Kennedy, Kane, Carlito Caribbean furono personalmente intervistati da Benzi, trasformando lo studio in un piccolo avamposto di Stamford in Italia. Gli italiani seguivano in TV qualsiasi apparizione speciale, qualsiasi menzione sui TG, qualsiasi programma extra tra tv free e pay, con un senso di partecipazione collettiva che raramente si era visto per uno sport-spettacolo straniero. Da non dimenticare i numerosi servizi riguardanti l’improvvisa morte di Eddie Guerrero avvenuta a novembre 2005 a soli 38 anni. In sua memoria fu preparato un commovente spot su Italia 1 in cui mentre veivano presentate diverse scene di Eddie sul ring il commentatore Giacomo Ciccio Valenti diceva: “Ciao Guaglio’!”. L’ultimo incontro del leggendario wrestler di origine messicana andato in onda su Italia 1 durante Smackdown fu contro Ken Kennedy. Rimaniamo sempre nel 2005, in quanto questo anno è topico per la storia televisiva del wrestling nel nostro Paese. Mentre il canale Sky GXT stava consolidando la sua identità come canale per adolescenti assetato di azione, il wrestling non fu trattato solo come sport-spettacolo da trasmettere, ma anche come oggetto di parodia. Il palinsesto del canale contava infatti WWE Afterburn e WWE Bottom Line, che venivano trasmessi regolarmente insieme ad altri show legati al fermento dell’immaginario fantastico e dell’ironia estrema. In questo contesto nacque Augusto, sitcom demenziale ambientata nel mondo del wrestling: Enzo Salvi prendeva spessore come “scienziato del wrestling”, un personaggio che metteva in scena esperimenti comici per “svelare i segreti dei lottatori”. Qualche anno dopo, fu replicato anche sul neonato canale K2 del digitale terrestre. L’idea era chiara: prendere in giro le pose, le mosse e l’eccesso dei wrestler con uno stile volutamente grottesco e leggero, in piena sintonia con il tono di intrattenimento del canale. Sempre nel 2005, Augusto venne collocato nella fascia pomeridiana, venendo trasmesso tutti i giorni alle 16:30, nel contorno delle trasmissioni Afterburn / Bottom Line. Come se questo non bastasse, un’altra federazione fece il suo ingresso in Italia: la TNA (Total Nonstop Action Wrestling). Fondata nel 2002 a Nashville, la TNA si presentava come una sorta di alternativa “innovativa”, capace di offrire un ring a sei lati, atleti spettacolari e storyline diverse da quelle della WWE. In Italia arrivò dapprima su Eurosport, che ne trasmetteva alcune puntate settimanali. Era un approdo discreto, lontano dai riflettori Mediaset, ma bastava a incuriosire gli appassionati. Per la prima volta il pubblico italiano poteva scoprire talenti come AJ Styles, Samoa Joe e Christopher Daniels, oltre a rivedere veterani come Sting e Kurt Angle, che avevano trovato nella TNA una seconda giovinezza. Il vero salto avvenne qualche anno dopo, quando la TNA approdò su GXT (canale peraltro che stava conoscendo un successo esorbitante dato che all’inizio trasmise anime giapponesi, sport estremi e format sperimentali per poi decadere nel becero trash fino alla totale sparizione) divenendo un contenuto di punta del canale Sky. Per un periodo, l’emittente riuscì persino a ritagliarsi un seguito fedele, fatto di fan che vedevano nella TNA una ventata d’aria fresca rispetto alla WWE. Grazie ai match più acrobatici, l’X Division, le sfide di AJ Styles, la presenza ingombrante di Jeff Jarrett, l’inquietante Abyss e l’approdo di Kurt Angle dalla WWE, la TNA potè guadagnarsi un buon successo in Italia. Durante la breve parentesi italiana della TNA, non fu solo la televisione a provarci: sempre nel 2007 fu lanciata anche una rivista ufficiale italiana della federazione un’edizione italiana del magazine della promotion. La prima uscita risulta datata marzo, con almeno altri numeri in aprile, maggio, luglio e agosto dello stesso anno. Naturalmente, il successo dell’allora federazione della famiglia Jarrett non fu mai paragonabile a quello della WWE su Italia 1. Ma la TNA su GXT rappresentò un’alternativa concreta, un’altra possibilità per i fan italiani di sentirsi parte di un mondo più vasto. Era un wrestling diverso, meno patinato, più sperimentale, che per qualche anno riuscì a generare entusiasmo. Tale disciplina all’epoca non era solo uno show televisivo, ma un fenomeno che penetrava nella cultura pop italiana, mescolandosi con programmi generalisti e diventando oggetto di gag e apparizioni curiose. Un episodio curioso del 2006 fu l’ospitata di John Cena al Festival di Sanremo, durante la quarta serata condotta da Giorgio Panariello. La comparsa dell’allora campione WWE sul palco dell’Ariston fu accolta con sorpresa e un pizzico di ironia: Panariello mise in scena un siparietto con una maschera di Pippo Baudo prima di presentarlo al pubblico, trasformando l’intervista in un momento sospeso tra comicità e spettacolo internazionale. Cena, all’epoca volto emergente del wrestling mondiale, si prestò con naturalezza al gioco, parlando della sua carriera e dell’impatto del wrestling anche in Italia. Quella breve apparizione contribuì a sancire la popolarità del fenomeno in un contesto popolare e inatteso come Sanremo, dimostrando quanto la “WWE-mania” fosse entrata ormai nell’immaginario collettivo del pubblico italiano. Come se non bastasse, nel 2007 Gabibbo sfidò Batista in un segmento di Paperissima Sprint, come antesignano di un confronto televisivo tra una mascotte simbolo della TV e una stella del ring. E come dimenticare di Rikishi e Black Pearl ospiti nel programma Distraction su Italia 1 nello stesso anno? Ambedue erano lottatori legati alla federazione Nu Wrestling Evolution (NWE), con Black Pearl che si era unito alla scena italiana accanto a suo cugino Rikishi, ex star della WWE. Tutto ciò faceva comprendere come il wrestling non era visto solo come sport-spettacolo, ma come elemento di intrattenimento che poteva essere “usato” anche fuori dal ring, in contesti televisivi generalisti. In quel periodo tale disciplina era, per brevi istanti, ovunque: nei talk, nei varietà, nei programmi comici. Era un linguaggio che parlava di se stesso, un po’ come è sempre stato il calcio presso i nostri lidi. Tutto ciò faceva sorridere e stupire un pubblico che ormai consoceva così bene tale sport-entertainment da riconoscerne ogni elemento. E non finisce qui. Nel cuore del boom italiano, la scena tricolore provò a darsi un volto televisivo con “NWE Destiny”: un format che, tra fine 2005 e il 2007, comparve sui canali La7 Sport e Odeon TV. La regia inseguiva un’idea semplice: legare una serialità da show settimanale a una tournée reale che attraversava piazze e palasport, trasformando i match in episodi di un racconto televisivo riconoscibile. La scelta di arruolare al commento italiano Dan Peterson — già “voce storica” che aveva reso pop la WWF — fu una mossa d’immagine potente, mentre per la platea anglofona la narrazione era affidata a Bill Apter, firma iconica del giornalismo di settore statunitense. Apter, figura leggendaria del giornalismo internazionale del wrestling, all’epoca vantava anche una rubrica su Tutto Wrestling Magazine — la celebre rivista mensile italiana chiusa nel 2010 — nella sezione “Apter’s Alley”, contribuendo così a costruire ponti mediatici tra la scena americana e quella italiana. Il marchio “Destiny” non visse soltanto nei palinsesti: divenne il cappello di un tour che, nell’estate 2006, portò sul ring una miscela di veterani internazionali e performer spettacolari — da Black Pearl (campione NWE) a Ultimo Dragon, da Rikishi (che per l’occasione cambiò nome in Kishi) a Matt Morgan, fino all’evergreen Vampiro — costruendo di conseguenza un immaginario di wrestling “all’italiana” capace di riempire arene e piazze. Quelle serate, documentate da risultati e report coevi, restituiscono l’odore di un progetto che provava a tradurre il linguaggio globale del ring nella geografia delle tv locali: non il mainstream della WWE, certo, ma un laboratorio pop con ambizioni chiare, sostenuto dalla riconoscibilità di volti celebri e da una messa in scena che strizzava l’occhio al grande spettacolo. Eppure, dietro l’apice, si nascondeva anche la fragilità del fenomeno. Il wrestling era sempre stato visto con sospetto da una parte della critica, accusato di violenza gratuita e cattivi esempi. I dirigenti televisivi sapevano che bastava un episodio controverso per scatenare polemiche. E purtroppo quell’episodio sarebbe arrivato, in modo tragico, nel 2007, con la vicenda di Chris Benoit. Ma specifichiamo la vicenda in questione. Nel giugno 2007, Chris Benoit, wrestler molto stimato e sotto contratto con la WWE, uccise la moglie e il figlio e poi si suicidò. Il duplice omicidio-suicidio avvenne tra il 22 e il 24 giugno 2007 nella sua abitazione in Georgia. Quando la notizia fece il giro dei media, il clamore fu enorme, anche in Italia, dove la WWE era trasmessa su Italia 1 con SmackDown ogni domenica mattina. Alcuni giorni dopo, la stessa rete – sotto la direzione di Luca Tiraboschi – decise di togliere SmackDown dal palinsesto, senza un annuncio ufficiale. Tiraboschi giustificò la scelta con un riferimento implicito al rischio di «confondere realtà e fantasia»: in una dichiarazione riportata dai quotidiani, disse che finché il wrestling era uno spettacolo di supereroi e personaggi quasi fumettistici, “funzionava nei giusti canoni del divertimento”; ma quando la cronaca più nera contaminava la proposta televisiva, Italia 1 non poteva più sostenere quel confine così labile. La decisione venne presa praticamente da un giorno all’altro e nel palinsesto dominicale le puntate di SmackDown vennero sostituite con repliche di Hercules, la serie tv con Kevin Sorbo. Quella decisione segnò la fine di un’epoca: il wrestling non sarebbe più tornato con quella forza sulla televisione generalista italiana. Restava su Sky, con Raw e i Pay Per View, ma non era più la stessa cosa: lo “sfondamento popolare” caratterizzante la prima metà degli anni 2000 non si sarebbe più ripetuto. La WWE diventava un prodotto da abbonati, più elitario, meno accessibile ai giovanissimi che l’avevano conosciuta su Italia 1. Se il 2007 aveva segnato la fine di SmackDown su Italia 1, l’anno successivo regalò ancora un’eco di popolarità che oggi possiamo leggere come un canto del cigno. Il 19 gennaio 2008, in piena promozione per WrestleMania 24, John Cena apparve come ospite di Quelli che il calcio su Rai 2, accolto da Simona Ventura e dal suo cast di comici e commentatori. Per il pubblico italiano fu un evento sorprendente: il volto simbolo della nuova era WWE che varcava uno degli studi televisivi più popolari della domenica pomeriggio, quello stesso contenitore che ogni settimana raccontava in chiave ironica il campionato di Serie A. Quell’apparizione rappresentò l’ultima vera consacrazione del wrestling come fenomeno mainstream in Italia. Cena, con il suo carisma da rapper patriottico, il ciondolo rotante al collo e il sorriso da star hollywoodiana, riuscì a strappare applausi e curiosità anche a chi non era fan del ring. Per un attimo sembrò che il legame tra la WWE e il grande pubblico potesse sopravvivere alla crisi seguita alla tragedia Benoit. In realtà, si trattò di un lampo isolato. Dopo quella domenica, il wrestling tornò ad essere relegato alle pay-tv e a piccoli esperimenti televisivi che non riuscirono mai a replicare l’onda d’urto dei primi anni Duemila. La presenza di Cena su Rai 2 rimase come una fotografia di un’epoca che stava finendo: il momento in cui il wrestling riusciva ancora a sedersi nel salotto buono della televisione italiana, prima di scivolare in un decennio di marginalità. Ecco, volendo essere precisi, la fine del periodo main stream in Italia riguardo al wrestling avvenne contemporaneamente all’evento di Wrestlemania 24, edizione trasmessa ad aprile 2008. La disciplina non sparì, ma smise di essere argomento da bar o da cortile scolastico: tornò a essere un culto per appassionati, alimentato da internet e dalle pay-tv, lontano dai riflettori della televisione generalista. Dopo la brusca interruzione di SmackDown su Italia 1 e il ridimensionamento del wrestling sui canali generalisti, ci furono alcuni tentativi di mantenere viva la fiamma in altre forme. Uno di questi passaggi minori, ma curiosi, fu l’approdo degli show riassuntivi della WWE su canali dedicati a un pubblico più giovane. Nel novembre del 2009, infatti, WWE Afterburn, la trasmissione che condensava gli avvenimenti di SmackDown, arrivò sul canale K2. La versione qui proposta era però pesantemente censurata: tagli di sequenze ritenute troppo violente, modifiche nei dialoghi e un adattamento che doveva rendere il prodotto adatto a un’audience infantile. Qualche tempo dopo toccò anche a WWE Bottom Line, lo show settimanale dedicato ai riassunti di Raw. Anch’esso trovò spazio su K2 (oltre a GXT) condividendo la stessa sorte editoriale del fratello maggiore: presentazioni più brevi, un montaggio meno aggressivo, e un format che cercava di salvare l’aspetto spettacolare eliminando i toni giudicati eccessivi. Questa parentesi su K2, durata poco più di un anno, non riuscì a lasciare un segno profondo: il wrestling proposto in versione edulcorata sembrava snaturato, e non entusiasmò né i fan storici né i ragazzi che avrebbero potuto avvicinarsi per la prima volta. Per questo motivo, già nell’ottobre 2010, sia Afterburn sia Bottom Line tornarono a essere trasmessi esclusivamente su GXT, dove andavano in onda senza censure e in una forma più fedele all’originale, finalmente in grado di restituire al pubblico italiano l’atmosfera autentica degli episodi statunitensi. Quella stagione confermò però un dato di fatto: il wrestling stava vivendo una fase di frammentazione televisiva, perdendo lo spazio privilegiato che aveva avuto nei palinsesti generalisti. Non era più il fenomeno popolare dei primi anni Duemila, ma un prodotto che sopravviveva a colpi di esperimenti, spostamenti e riadattamenti, spesso percepito come un intruso da incasellare in spazi marginali. Dopo il 2007, il wrestling in Italia era entrato in una lunga stagione di oscurità. I fan più fedeli continuarono a seguirlo, ma il pubblico generalista, quello che aveva reso John Cena e Undertaker nomi familiari anche per chi non conosceva il ring, si allontanò progressivamente. In questo contesto bisogna necessariamente segnalare nel 2009 un tentativo di rilancio tanto curioso quanto controverso: Dahlia TV. Nata come evoluzione di Cartapiù, Dahlia si presentava come una pay-tv “alternativa”, con un’offerta che spaziava dallo sport all’intrattenimento, fino a includere veri e propri canali dedicati all’erotismo. All’interno del pacchetto sportivo trovava posto anche il wrestling: il canale Dahlia Xtreme trasmetteva puntate di Raw, SmackDown e persino contenuti della federazione italiana Nu Wrestling Evolution. Per un attimo parve che la scena potesse tornare a respirare, che i fan rimasti orfani di Italia 1 avessero finalmente una nuova casa. Eppure, proprio la collocazione accanto ai canali erotici rese questa esperienza una delle pagine più ambigue e criticate nella storia televisiva del wrestling in Italia. Il ring, già messo in crisi dal discredito seguito alla tragedia Benoit, veniva associato a un contesto che molti giudicarono squallido e poco adatto alla natura del prodotto. Il wrestling appariva come un ospite ingombrante dentro un bouquet che privilegiava altri tipi di spettacolo, finendo per perdere ulteriormente dignità e credibilità. Dahlia TV non durò a lungo: nel 2011 la società entrò in liquidazione e il segnale si spense, chiudendo così una parentesi che, se da un lato offrì ai fan la possibilità di vedere ancora wrestling in televisione, dall’altro simboleggiò meglio di ogni altra cosa il periodo buio del wrestling in Italia: quello in cui lo sport-spettacolo non era più fenomeno popolare, ma contenuto marginale in un contesto di seconda scelta. La fine degli anni Dieci videro poi l’arrivo della AEW (All Elite Wrestling), la federazione americana fondata nel 2019 e trasmessa in Italia su Sky Sport. Per gli appassionati più fedeli fu un vento nuovo, una validissima alternativa alla WWE, una federazione capace di riportare sul ring l’adrenalina delle Monday Night Wars. Ma anche qui, l’impatto in Italia rimase confinato a una nicchia: non c’era più l’Italia 1 a spalancare le porte al grande pubblico, non c’era più la Rai a invitare wrestler nelle trasmissioni domenicali, non c’era più il merchandising distribuito a tappeto nei centri commerciali. Il vero spartiacque fu l’esplosione delle piattaforme streaming. Negli anni 2020 la WWE lanciò il proprio WWE Network, poi confluito su Peacock negli Stati Uniti e integrato in vari pacchetti streaming anche in Europa. In Italia la fruizione passò sempre più attraverso internet: dirette su piattaforme, highlights su YouTube, segmenti diffusi sui social. Ciò permise agli appassionati di non perdere nulla, ma tolse al wrestling quella caratteristica che lo aveva reso fenomeno di massa: la condivisione televisiva. Negli anni Duemila ci si riuniva davanti alla tv il sabato pomeriggio per SmackDown, se ne parlava a scuola il giorno dopo, insomma, un altro mondo, un’altra epoca, un’altra realtà, così vicina eppure… così lontana! Oggi il wrestling è fruibile “on demand”, ma questo significa che ciascuno lo guarda in solitaria, senza più quel collante collettivo. Al giorno d’oggi il wrestling in Italia vive soprattutto attraverso i social network, le piattaforme streaming e i canali tematici. La WWE è ancora visibile, così come la AEW e, con minore fortuna, Impact Wrestling (l’ex TNA). Ma si tratta di contenuti che non escono dal recinto degli appassionati. Non ci sono più bambini che imitano il compianfo Hulk Hogan o Undertaker nel cortile, non ci sono più edicole piene di riviste dedicate, non ci sono più varietà italiani che ospitano i campioni a sorpresa. E qui sta il punto: difficilmente, se non impossibile, il wrestling tornerà a essere un fenomeno di massa in Italia. Non solo perché i tempi sono cambiati, ma anche perché l’effetto sorpresa, che negli anni ’80 e 2000 travolse l’immaginario collettivo, oggi non esiste più. I social hanno svelato ogni trucco, ogni ritorno, ogni storyline: nulla è più “segreto”. Dove una volta c’era l’attesa del colpo di scena, oggi c’è lo spoiler su X pochi minuti dopo. In più, i wrestler attuali — seppur talentuosi — non possiedono più il carisma larger-than-life dei giganti del passato. Hulk Hogan era un’icona pop capace di rivaleggiare con Rambo o Superman. The Undertaker era una leggenda gotica che entrava nell’immaginario come una figura mitologica, un personaggio che camminava nell’oscurità, ma che allo stesso tempo lottava per un giusto obiettivo. John Cena diventò un volto familiare anche per chi non seguiva il ring. Le star di oggi sono atleti straordinari, ma nessuno di loro sembra capace di catturare la fantasia collettiva come fecero quelle icone. Il wrestling in Italia, insomma, è diventato un rito per appassionati, non più una passione di massa. Una nicchia calda e fedele, certo, ma lontana dalla cultura popolare che a metà anni 2000 portava il Gabibbo a scherzare con Batista o un Enzo Salvi a inventarsi Agusto – The Bestia. Oggi resta il ricordo di quell’epoca dorata e l’eco di un fenomeno che fu, irripetibile e irripetuto.





[esi adrotate group="1" cache="public" ttl="0"]