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Le tradizioni, gastronomiche e non, del Natale a Manfredonia

L’interpretazione anche in chiave moderna, del Natale non tralascia di vedere nella festività un senso d’aspettativa e d’attesa, una visualizzazione ed un accostarsi alla vita con una gioia ed una gaiezza a lungo promesse.

E la stessa interpretazione, che affondi le radici nella tradizione mediterrranea o in quella nordica, resta pur sempre una rivisitazione del passato, un ritorno alla fanciullezza, come dire,alle origini della propria formazione umana.
Se pure nella chiassosità dei vari tempi storici, più o meno adeguata al relativo tenore di vita (ma pur sempre chiassosità), consumare il Natale ha significato e significa ancora il ricalarsi in se stessi, nel proprio mondo interiore.
Ed è, forse, questo afflato partecipativo della coscienza umana, a qualunque latitudine, a far si che quella interpretazione diventi contestuale, nello spazio e nel tempo.


Potremmo quasi dire che la religiosità, l’aspetto culturale e rituale del Natale non hanno confini, tanto è che le sue tradizioni sono rimaste pressochè inalterate, se pure adeguate ai tempi.
Limitando il campo di interesse alla comunità sipontina , si può argomentare che , cosi come per il Gargano e la capitanata, pure a Manfredonia le tradizioni Natalizie ci appaiono ancor oggi pregnanti.

Il senso di aspettativa, una volta veniva scandito dalle varie ricorrenze che precedono il Natale: Sand’Andréje e Natéle a vindiséje; Sande Necole e Natéle a diciannove, Sanda Cungètte e Natéle a diciassette; Sanda Lucije e Natéle a tredicine.
Non potevano, naturalmente mancare i falò (i fanoje) alle vigilie, cosi come le frittelle di pasta lievitata (i pettole).

Per S.Lucia, poi, tradizione inveterata è che si consumino, in prima mattina , le fave cotte (i fève aggraccéte) a devozione della santa e a preservazione della vista.
E pia devozione è, ancora, la messa in onore della stessa santa (la cui immagine si venera su di un altare laterale della chiesa di S.Benedetto).

Un alone palpabile, quindi, si forma, giorno per giorno, dal’albaal tramonto; un’aromosfera che si insinua per le strade e per i vicoli, nelle case e nelle menti.
E i bambini, a frotte, appresso alle madri , a sentir le messe, o attorno ai falò, comunque in moina, per il sol gusto di esser partecipi, attori della festa.
E in questo modo l’attesa è già festa.

Oltre all’aspetto decorativo (presepe, albero, addobbi vari), il Natale si configura (e vieppiù nel passato) in un’altra essenza, quella culinaria.

Il tutto, oggi, dà la sensazione di un ritorno a sapori agognati, che solo in questo periodo dell’anno trovano il contesto più consono.
La ritualità e la gestualità delle massaie sono dettate da un modo ancestrale, una creatività tramandata da generazioni, un senso partecipativo senza esitazioni, che pure ciò è festa.

L’affacciarsi delle donne a temprare la pasta, a sgusciare le mandorle,a cuocere l’uva o i fichi d’india, con i più piccini attaccati al grembiule a mangiucchiare tutto cio che capita a tiro , è uno spettacolo irripetibile.
E questo spettacolo, il sapore e l’aroma latenti, e mai sopiti, fanno grave di nostalgia colui che vive fuori di casa o dalla sua città.
Si, d’accordo, i pasticcini che egli ivi mangia saranno pur saporiti, ma quelli fatti dalla mamma son tutt’altra cosa.

I cartelléte, i cavezungille, i nanarille, l’ostia chjéne, i menele atterréte, i biscuttine, i scavetatille, i tarelline, i puperéte, i pettole, se pure oggi mangiati nell’arco dell’anno, non hanno il sapore di questi giorni de festa.

E gli ingredienti di questi dolciumi sono tipici di una particolare zona d’Italia, e vanno preparati e consumati sul posto, con l’atmosfera che gli è più congeniale.
E si perchè il tutto aveva, ed ha, il senso di un momentaneo benessere, della grascia, alla quale si è posto mano per tempo, conservando e oberando: grano duro, vin cotto, mostarda, olio e vino casereccio.

E chi mai potrà descrivere il gusto ineffabile
che prende nell’assaggiare una pettola appena fritta, scottante, grondante olio, ripiena o meno di ricotta o baccalà, accompagnata poi da un sorso di vino bianco pastoso?

E la voluttà nel morsicare lentamente, centellinando, una cartellata, appena intinta nel vin cotto che quasi ti cola addosso ?

E il gusto delizioso nel palpeggiare sulle labbra u cavezungille che ti riempie la bocca di mostarda ?

E la cena, poi, alle vigilie ?

Vigilie fatte di sedicenti digiuni, piluccando qua e là, assaporando baccalà e broccoli in umido, conditi con olio; un introibo, un assagiare senza mangiare, un appetito solleticato e non appagato.
La cena quindi ,la zuppa di pesce, a ciambotte, la capacità di amalgamare gusti variegati di crostacei e di pesce, un armonico amplesso di odori , colori e sapori senza eguali qui da noi.
E la ciambotte tanto è più sfiziosa quanti più elementi si riesce ad amalgamare(e se ne contano a decine e decine).

E pure in tempi non lontani, quando più tempestoso era l’inverno (i malannéte), con lo spettro della miseria sempre presente, vi era chi sapeva spillare gli aromi dai ciottoli di mare.

Altri tempi, altra filosofia di vita!

Alla zuppa di pesce non può non seguire un arrosto di anguille
(l’angoidde) o di capitoni (una volta abbondanti nei laghi e nei corsi d’acqua sipontini).
Ed anche per questo arrosto vi era un particolare rituale; le anguille, dopo esser state pulite e trattate con olio e aceto, venivano spillate e infilzate in spiedi di legno tenuti, a mò di piramide, con la punta verso l’alto, sul fuoco.

Eh si, cosi come per la cottura dei dolciumi, per la quale è essenziale il forno a legna (alla scadute du fuche dopo il pane), cosi anche per al zuppa e per l’arrosto il rituale è ben preciso.

Il pasto di Natale è dato dal ragù, servito sulle orecchiette.
Il ragù doveva essere preparato per tempo, facendo cuocere il pomodoro, e poi gli involtini di carne (i braciole), per ore, sulla brace, con una lenta e continua bollitura, utilizzando per lo più, una fondina di creta (e si diceva che il tegame doveva pippejéje).

A S.Stefano, immancabilmente, viene servita la minestra verde, fatta di svariati tipi di verdura, condita con sugo di tracche (spuntature) o cotiche di maiale .
Come frutta, quella di stagione; il dessert quello casareccio, accompagato con il rosolio, sempre fatto in casa.

Questo, dunque, il nostro Natale, con tutti i contorni festosi della veglia e dei giuochi in famiglia, con amici e parentado, più o meno numeroso, con le nuore in attesa del regalo e con le figlie da marito che, nei tempi antichi, uscivano con i genitori per sentir messa
(a mèsse de l’albe), con la roba nuova addosso (ngegnéte), per farsi…ammirare da eventuali fidanzati.

Una semplicità di sentimenti e di costumi, una naturalezza gestuale, un rituale senza tempo, per poi ritornanre all’antico usato, al chiuso, alla parsimonia.

Eh si, come sempre, il Natale non è uguale per tutti; pur di fare sentire la gioia della festa, non di rado ci si doveva indebitare
; sono sintomatici alcuni versi di una vecchia canzoncina locale:
Mo véne Natéle, mo véne Natéle; dopo l’elencazione di tutti i dolciumi, essa ammonisce: Natéle pu musse de junde/e dope Natéle facime li cunde,/a mangé je venute lu guste , e a pajè véne la suste!

E non meno inquietante è il detto: Dope Natéle fridde e féme

La festività natalizia termina con l’Epifania ;essa dà l’ultima occasione per mangiare le frittelle di pasta: A Bufanije tutte i pettole pigghiene vije!
E nella notte di questa festività le giovani donne traevano auspici per il loro eventuale maritaggio: Sanda Pasche a Bufanije, dimme tu a sorta mije.

testo : Archivio storico Sipontino, Pasquale Ognissanti

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