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La partita più lunga

Era il 28 maggio 1972, ed il Manfredonia doveva giocare la sua partita più lunga. Non era facile alla vigilia pronosticare la vittoria dei sipontini. La gara era infame così come tutte gli incontri di quel campionato di Serie D. In riva al golfo il sole torrido faceva masticare polvere e sudore ai calciatori che si dimenavano su quel terreno, che nemmeno i più sadici potevano immaginare fosse così delittuoso.

La calura alle due e trenta era insopportabile, così come l’ansia e l’attesa di un risultato che non dipendeva solo dalla gara contro il Poggiardo, ma da un’altra variabile: la sconfitta del Putignano. Perché a pari merito il regolamento prevedeva che avesse la meglio la squadra con la migliore differenza reti, e contro i baresi non vi era storia; dovevano perdere a Termoli e noi vincere in casa.

L’arbitro era un distinto impiegato che si dimenava in campo più per inerzia che per raziocinio, avendo sopportato ben 18 ore di treno per venire in Puglia da Lentini. Stazionava spesso a centrocampo, e fischiava incitato più dalle alzate di mano dei calciatori, che per aver notato dei veri e propri falli di gioco.

Il pubblico assisteva per abitudine che per vera passione, condannato a soffrire… e quest’anno si capiva che era andato tutto storto.

La podomachia, ovvero l’arte di tirare calci al pallone, nella nostra landa non è scevra di sorprese, e quando accadono capisci che la sorte ti deride proprio quando speri che ti arrida.

Il portiere avversario non era un grande, aveva militato in tornei mediocri fatti di pedate e sputi, più che di tecnica ed invenzioni. Le sue gesta non avevano assunto agli onori della gloria, se non tra qualche familiare che se ne ricordava gli esordi. Eppure quel giorno, quel portiere parò di tutto, quasi se fosse veramente un fuoriclasse.

“L’ispirazione non esiste – ha scritto Vargas Llosa – È forse qualcosa che guida le mani di scultori e pittori e detta immagini e note all’udito di poeti e musicisti, ma che non va mai a trovare il romanziere: quest’ultimo è del tutto trascurato dalle muse ed è condannato a sostituire quella collaborazione negatagli con la testardaggine, la fatica e la pazienza“; e così i nostri dovettero capitolare più all’istinto che al poetare in mezzo al campo. E quando la partita sembrava fatta, soprattutto nel secondo tempo, ecco arrivare il gol del Poggiardo.

Dover fare almeno due gol in mezz’ora quando per un tempo ed un quarto non si è fatto nulla, diventava difficile. Ma dopo qualche minuto i nostri con Tannoia riuscirono a pareggiare, dopo un rigore insperato richiesto a gran voce da Sasà. Poi ancora quel portiere, quell’uomo vestito di nero a respingere l’impossibile e a non credere neanche a se stesso; a diventare l’estremo baluardo di una partita che sembrava non finire mai, e che terminò mestamente negli spogliatoi tra spinte e malumori, quasi ad esorcizzare l’amaro resoconto: la retrocessione.

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Redazione

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