Dragonball Evolution: un film che ha senso di esistere?
Dragon Ball Evolution non è solo un brutto film: è un esperimento fallito, una bestemmia pop e un manuale su come NON adattare un mito.

Dragonball Evolution è uno di quei film che non si limitano a essere brutti: ti guardano negli occhi e sembrano dirti che sì, la tua memoria affettiva è negoziabile, che puoi prendere un capolavoro popolare e svuotarlo fino a trasformarlo in un prodotto generico, “adattato”, addomesticato per un pubblico che – a quanto pare – non avrebbe retto l’idea rivoluzionaria di un ragazzino con la coda che vive tra le montagne e spacca massi con una risata. Nel 2009 la 20th Century Fox mette in sala un live action che porta un titolo pesantissimo e lo usa come maschera per un film che con Dragon Ball ha un rapporto simile a quello tra una fotocopia sbiadita e l’originale: la forma vagamente c’è, l’anima è evaporata.
Eppure, proprio perché è così mal concepito, Dragonball Evolution è diventato una specie di “evento” permanente: lo tiri fuori quando vuoi dimostrare quanto male possa finire un adattamento; lo citi quando vuoi parlare di whitewashing, d un manga giapponese adattato all’occidentale (immaginatevi), di scelte creative approsimativamente; lo rispolveri quando vuoi ricordarti che esiste un punto in cui un marchio famoso non basta più a coprire il vuoto. È l’equivalente cinematografico di un tatuaggio fatto male sulla faccia di un’icona: non importa quanta buona volontà tu ci metta, continuerai a vedere l’errore prima della persona.
Questa recensione–inchiesta non vuole limitarsi alla solita sentenza “fa schifo”. Lo sappiamo già. Qui si scende nei dettagli: cast, contesto, retroscena, scelte produttive, dichiarazioni pubbliche, curiosità, e soprattutto quel punto che rende Evolution quasi unico nel suo genere: il fatto che, a un certo momento, persino Akira Toriyama – che non aveva nessun bisogno di esporsi – abbia sostanzialmente detto: “Io ve l’avevo detto”. E quando l’autore originale arriva a una frase del genere, non siamo più nel campo del gusto. Siamo nel campo dell’evidenza.
Dragonball Evolution non è Dragon Ball!
Se dovessimo descrivere Dragonball Evolution in una parola sarebbe: timidezza. Timidezza mascherata da modernità. Timidezza travestita da “reinvenzione”. Timidezza che diventa cringe quando si capisce che l’operazione non nasce per tradurre Dragon Ball nel linguaggio del cinema occidentale, ma per ripulirlo, normalizzarlo, renderlo digeribile a forza, come quando ti dicono che un piatto tradizionale è “rivisitato” e poi scopri che hanno tolto gli ingredienti, il profumo, la storia, lasciando un oggettino elegante ma senza sapore.
La prima grande “rivisitazione” è anche la più devastante: Goku non è più Goku. È un adolescente da film teen, iscritto a scuola, bullizzato, impacciato, romanticamente goffo. Il punto non è nemmeno che un Goku adolescente non si possa fare: il punto è che qui è adolescente nel modo più stereotipato possibile, quello da manuale Hollywood di fine anni 2000, con la cotta, la festa, i prepotenti, la vergogna sociale. Gli anime anni ’80 che incontrano Dawson’s Creek, il che è tutto un programma. Dragon Ball, da avventura mitologica e comica, diventa un prodotto da scaffale “young adult”, con un nome famoso stampato sopra.
Questo spostamento non è innocuo. Goku, nell’opera originale, funziona perché è “altro”: non conosce le convenzioni, non ha i filtri sociali, non prova imbarazzo. È puro, diretto, quasi imbarazzante lui stesso per gli altri. Metterlo dentro il liceo e fargli provare vergogna è come prendere un personaggio costruito sull’innocenza e appiccicargli addosso la timidezza. Non è un adattamento: è un trapianto rigettato.
E qui entra in scena il cast, perché una delle difese automatiche che molti provano a mettere in piedi quando si parla di Evolution è: “Sì, ma gli attori…”. No. Gli attori sono stati messi in una trappola. E alcuni, col senno di poi, l’hanno pure lasciato intendere.
Justin Chatwin (Goku): il protagonista(?)
Justin Chatwin, scelto per interpretare Goku, si ritrova a dover incarnare un personaggio che il film ha già svuotato. In teoria, poteva essere un casting furbo: un volto capace di fare il “ragazzo normale” che scopre un destino più grande. In pratica, diventa il simbolo di una scelta concettuale disastrosa: fare di Goku un ragazzo yankee , adolescente occidentale, come se il mondo non avesse già mille protagonisti così.
Chatwin, nelle interviste dell’epoca promozionale, prova a tenere in piedi la baracca parlando di allenamento e di approccio fisico, e in generale si percepisce quel classico entusiasmo “da tour stampa” che spesso non c’entra nulla con la qualità del film. In un’intervista italiana pre-uscita, per esempio, racconta il lavoro sul set e cita Chow Yun-Fat come presenza carismatica e formativa, parlando anche di Tai Chi insegnato sul set. È materiale da backstage, certo, ma aiuta a capire una cosa: il set aveva persone che sapevano cosa significasse disciplina fisica e cinema d’azione; il film finito, però, sembra ignorarlo.
Il problema è che Chatwin non può “salvare” un Goku scritto come un protagonista standardizzato. Il suo Goku non ha quella leggerezza infantile che rende l’originale irresistibile. Non ha il comico naturale. Non ha la sete di conoscere il mondo oltre i monti dove ha sempre vissuto. Ha solo reazioni, non slancio. È un Goku che subisce, mentre il vero Goku conquista, inciampa, ride, cresce. Evolution gli toglie l’appetito. E senza appetito Goku non è Goku.
Emmy Rossum (Bulma): una novella Lara Croft
Bulma è uno dei motori della saga: geniale, caparbia, spesso più “adulta” degli adulti. In Evolution, interpretata da Emmy Rossum, diventa soprattutto un dispositivo narrativo: quella che “sa le cose”, quella che “porta avanti la trama”, quella che “spiega”. Rossum, attrice capace, finisce intrappolata in una scrittura che non le lascia il gusto, l’arroganza simpatica, la vitalità scientifica della Bulma originale.
La cosa più grottesca è che il film, mentre banalizza i personaggi, prova comunque a venderli come iconici. È un paradosso continuo: ti dice “Ecco Bulma!”, ma poi te la fa parlare e muovere come una protagonista generica di avventura fantasy televisiva. Una ragazza d’azione con tanto di pistole, che per look e comportamento non è difficile paragonarla a Lara Croft, la protagonista della celebre serie videoludica Tomb Raider. Il fatto è che il personaggio originale, per quanto amante dell’avventura, è sì una ragazza intelligente, dal punto di vista scientifico, ma comunque ingenua, romantica, che va alla ricerca delle sfere del drago per trovare l’amore, almeno nel fumetto originale. In questo live action, dunque, il nome è Bulma, il personaggio no. E questo vale per quasi tutto il resto del cast.
Chow Yun-Fat (Roshi): il maestro stavolta “puritano”
Chow Yun-Fat come Maestro Muten/Roshi, sulla carta, è la scelta più “internazionale”: un nome enorme, un attore capace di attraversare generi e culture. Ma anche qui il film commette un errore che sembra fatto apposta: Chow non è il Genio delle tartarughe (che nel doppiaggio originale del cartone ha la voce del mitico Mario Scarabelli), ma lo incastra in una versione annacquata del maestro, privata della sua eccentricità irresistibile e della sua aura leggendaria di esperto di arti marziali e, al contempo, di vecchietto “rattuso” amante delle belle giovani come il suo collega Happosai di Ranma 1/2.
Sul set, stando a racconti promozionali, Chow porta energia e disciplina, tanto da risultare quasi “maestro” anche fuori scena, con momenti di allenamento e insegnamento per gli altri. Il problema è che il film non sfrutta quel “patrimonio”: Roshi dovrebbe essere una figura larger-than-life, comica e saggia, sporcacciona e spirituale, ridicola e sacra. Qui è più un “mentore generico” con qualche strizzata d’occhio. È Roshi con il freno a mano tirato, e Roshi limitato dal punto di vista etico e morale è una contraddizione.
James Marsters (Piccolo): carismatico ma non abbastanza
E poi c’è James Marsters, che interpreta Piccolo. È probabilmente quello che, nel ricordo collettivo, molti indicano come “il meno peggio”. Non perché sia un Piccolo riuscito, ma perché Marsters ha presenza, ha mestiere, e in alcune scene sembra intuire che l’unico modo per rendere credibile un cattivo del genere è dargli una certa intensità.
Anni dopo, in ricostruzioni e articoli retrospettivi, è emerso che Marsters avrebbe percepito da subito l’odore di disastro sul set. E non è difficile crederci: quando un attore con esperienza fiuta che il tono è sbagliato, di solito è perché la sceneggiatura non regge e la produzione naviga a vista. Marsters ci prova, ma Piccolo non è solo un volto minaccioso: è mitologia, è paura, è minaccia cosmica. Il film lo trasforma in un antagonista da fantasy minore, e anche l’impegno dell’attore si scontra contro make-up e scrittura che non aiutano.
Jamie Chung (Chichi): la guerriera ridotta a love interest “cool”
Chichi (che nell’anime originale ha la voce di una bravissima e dolcissima Elisabetta Spinelli) è un personaggio che nel manga/anime ha un’identità precisa: figlia del Re Gyumaoo, ragazza forte, poi moglie severa, madre determinata. Evolution la rilegge come la “ragazza forte e figa” del liceo, con un’estetica da film adolescenziale e una funzione romantica evidente. È uno dei punti in cui il film tradisce la sua ansia di occidentalizzazione: prende un personaggio nato in un universo di stampo shonen/fantasy e lo incolla dentro un contesto “high school” che lo riscrive automaticamente secondo cliché.
Il risultato è che Chichi perde specificità e diventa un archetipo contemporaneo. Non è più una figura di saga. È una comparsa potenziata.
Yamcha: lo sfigato anonimo dell’anime? Qui è peggio!
Se Goku è stato snaturato e Piccolo ridicolizzato, Yamcha è stato semplicemente cancellato nella sua funzione narrativa. Nel film interpretato da Joon Park, personaggio televisivo e attore noto soprattutto per la sua carriera nel mondo dello spettacolo coreano, Yamcha diventa una presenza quasi ornamentale, una specie di “amico cool” senza arco, senza conflitto e soprattutto senza quella dimensione tragicomica che lo rende memorabile nell’opera originale. Yamcha, in Dragon Ball, è il perdente affascinante, il guerriero che ci prova sempre e cade spesso, incarnazione dell’umanità messa a confronto con l’impossibile.
In Evolution tutto questo scompare: niente ironia, niente fragilità, niente destino da eterno secondo. Joon Park non è tanto inadatto quanto prigioniero di una scrittura che non sa cosa farsene del personaggio, relegandolo a comparsa con dialoghi minimi e un’identità annacquata. Il risultato è che Yamcha non è più Yamcha, ma un volto che attraversa il film senza lasciare traccia, simbolo perfetto di come Dragonball Evolution abbia preso personaggi amati e li abbia trasformati in sagome intercambiabili.
Il vero “peso” di Toriyama: consulente ascoltato o foglia di fico?
La domanda che i fan si fanno da anni è sempre la stessa: Toriyama quanto c’entrava? La risposta più onesta è: poco, e quando ha provato a dire o fare qualcosa, gli hanno fatto capire che era tardi.
Quello che sappiamo con più chiarezza è legato a una dichiarazione attribuita al compianto autore in un’intervista ripresa e tradotta in ambito occidentale: Toriyama avrebbe ritenuto che la sceneggiatura non catturasse mondo e caratteristiche di Dragon Ball e avrebbe raccontato di aver suggerito cambiamenti, senza essere realmente ascoltato. In quella ricostruzione si parla di “strana fiducia” della produzione e del fatto che le sue idee non sarebbero state seguite, con la conclusione durissima che il risultato non poteva essere chiamato Dragon Ball. Qui bisogna capire l’impatto psicologico e simbolico: quando un autore come Toriyama – notoriamente poco incline a guerre pubbliche – arriva a una presa di distanza così netta, significa che la frattura non è stata “un dettaglio”. È stata un muro. Toriyama non si è limitato a dire “non mi piace”: ha messo in discussione l’identità stessa del film.
E allora il suo “peso” assume una forma paradossale: in produzione non ha avuto il potere di evitare il disastro, ma la sua reazione ha contribuito a cristallizzare Evolution come “non canon”, come errore, come deviazione da respingere. Non solo per i fan, ma per la storia stessa del franchise.
C’è di più: in varie ricostruzioni si è collegato il fallimento di Evolution a un ritorno d’interesse di Toriyama per l’universo di Dragon Ball in anni successivi, anche in relazione a progetti animati che avrebbero rilanciato la serie. Questa catena causale viene spesso ripetuta, talvolta romanzata, ma il punto di fondo resta: Evolution è diventato un trauma talmente grande da trasformarsi in carburante narrativo altrove. E questa è forse l’unica “utilità” storica del film: essere stato così sbagliato da rendere evidente, per contrasto, cosa fosse veramente Dragon Ball.
Il “mea culpa” più famoso: lo sceneggiatore e l’apologia tardiva
Se Toriyama è il padre che guarda la macchina nuova del figlio schiantata contro un muro e dice “te l’avevo detto”, lo sceneggiatore Ben Ramsey è quello che, anni dopo, torna sulla scena e fa un gesto rarissimo a Hollywood: chiede scusa.
Nel 2016, a distanza di sette anni dall’uscita, circola un messaggio di Ramsey in cui parla del dolore creativo e della responsabilità, dicendo – tra le altre cose – che “Dragonball Evolution” è stato un momento molto doloroso e che si assume la responsabilità del risultato. È un episodio importante perché, al di là dei singoli errori, svela un retroscena implicito: il film è stato percepito come fallimento non solo dai fan, ma anche da chi ci ha lavorato.
Attenzione, però: l’apologia non “salva” nulla. Non riscrive la storia. Ma è un tassello utile per capire che Evolution non è solo l’ennesimo caso di adattamento frainteso: è un caso in cui la distanza tra prodotto e materiale originale è stata avvertita come irreparabile anche internamente. Quando uno sceneggiatore sente il bisogno di scusarsi pubblicamente, significa che l’onda d’urto non si è mai fermata.
E infatti Evolution non è invecchiato “male” come certi film: è invecchiato esattamente come doveva, perché era già vecchio e sbagliato il giorno dell’uscita. Era già nato come un compromesso.
Box office: un fallimento rumoroso
Un altro mito da sfatare è l’idea che Evolution sia stato un disastro economico apocalittico. In realtà il film ha incassato nel mondo circa 55,7 milioni di dollari, con una quota domestica americana molto bassa rispetto all’internazionale. A fronte di un budget riportato in varie ricostruzioni attorno ai 30 milioni, la cifra potrebbe sembrare “non tragica” a prima vista. Il problema è che l’incasso non basta a raccontare la storia: marketing, distribuzione, aspettative di franchise, piani per sequel. Wikipedia stessa ricorda che il film era pensato come inizio di una serie, poi cancellata a causa della ricezione. Ed è qui il punto: Evolution non è stato solo un prodotto che ha reso poco; è stato un prodotto che ha bruciato fiducia, che ha trasformato un marchio in una barzelletta e ha reso “live action da anime” una frase tossica per anni.
In altre parole: non è che non abbia incassato abbastanza. È che ha incassato abbastanza da esistere, ma non abbastanza da giustificare l’ambizione. È la forma più irritante di fallimento: quella che ti lascia il danno e nessun ritorno.
Il set e le location: Durango, Messico
Una delle curiosità interessanti riguarda la produzione sul campo. Ci sono resoconti di set visit che parlano di riprese in Durango, in Messico, in ambienti industriali abbandonati e scenari naturali usati per dare un sapore “avventuroso” al film. Durango, storicamente usato per western e produzioni internazionali, avrebbe potuto funzionare: Dragon Ball, dopotutto, mescola deserti, montagne, villaggi, strade polverose, paesaggi da fiaba e arti marziali.
Il problema è che Evolution usa le location come cartolina, non come mondo. Non costruisce geografia emotiva. Non ti fa sentire il viaggio. Ti sposta da un posto all’altro come se stessi cambiando canale. È un road movie senza strada, un’avventura senza senso di scoperta. E questo rende quasi più tragico il fatto che abbiano girato davvero in luoghi che potevano dare respiro: il film non sa cosa farsene.
Quando perfino l’onda energetica è poco energetica
Qui arriva la parte che, per un fan, è quasi fisica. Dragon Ball è pieno di simboli riconoscibili: il bastone, le sfere, la Kame House, la trasformazione, l’ozaru, l’allenamento. Evolution prende alcuni di questi simboli e li usa come gadget scenici, senza comprenderli.
L’onda energetica (Kamehameha) di Goku e del Genio delle tartarughe è l’esempio perfetto: non è solo un colpo energetico, è un rito. È la sintesi dell’allenamento, l’idea che la tecnica si conquista. Nell’originale, quando appare, è una rivelazione: il corpo diventa canale, la volontà diventa forma. Evolution lo tratta come un effetto speciale da lanciare quando serve. È la differenza tra mitologia e videogame scadente.
E se ti chiedi perché questo dettaglio sia importante, la risposta è semplice: perché Dragon Ball vive di crescita. Se togli la crescita, restano solo i fuochi d’artificio. E se anche i fuochi d’artificio sono brutti, allora resta solo il silenzio.
Whitewashing e “occidentalizzazione”
Una delle critiche che ha seguito Evolution come un’ombra è quella legata al casting e all’impronta culturale. Il film è stato accusato di whitewashing e di scarsa fedeltà al materiale originale. Al di là delle etichette, il problema è più profondo: il film ha paura della specificità. Ha paura della stranezza. Ha paura dell’orientalità pop di Dragon Ball, che è sempre stata un mix affascinante di Cina fantastica, Giappone comico, Occidente da cartone animato, fiaba e kung fu.
Invece di abbracciare quel sincretismo, Evolution lo “ripulisce” e lo traduce in un linguaggio standard: liceo americano, drama adolescenziale, fantasy action da scaffale. Il paradosso è che Dragon Ball era già globale proprio perché non era standard. Era unico. Evolution, nel tentativo di renderlo universale, lo rende anonimo.
E allora perché fa così rabbia?
La bruttezza, da sola, potrebbe anche diventare folklore. Un film brutto può diventare culto trash, come Super Mario Bros con Bob Hoskins e John Leguizamo. Puoi ridere, puoi farci sopra meme, puoi usarlo come serata alcolica tra amici. Dragonball Evolution, però, ha un’aggravante: è presuntuoso. Si prende sul serio mentre tradisce ciò che racconta. Ti chiede di emozionarti su scene che non ha costruito a dovere. Ti chiede di credere in un destino epico mentre ti mostra un protagonista da teen movie. Ti chiede di vedere Piccolo come minaccia apocalittica mentre sembra un cattivo da episodio pilota di una serie cancellata.
È un film che pretende, ma non merita. E questa pretesa è ciò che lo rende così detestabile: non ti sta offrendo un’alternativa artistica. Ti sta dicendo che la tua storia può essere riscritta in modo più comodo per il mercato.
E qui torniamo a Toriyama, perché la sua presa di distanza non è solo una nota di colore. È la pietra tombale: se persino chi ha creato quel mondo dice che ciò che ne è uscito “non può essere chiamato Dragon Ball”, allora non stiamo più discutendo di gusti. Stiamo discutendo di identità.
Un caso umano, non un film!
Dragonball Evolution non è un film da “recensire” come gli altri. È un caso di studio su come si può fallire in ogni direzione contemporaneamente. Fallisce come adattamento perché snatura i personaggi. Fallisce come film teen perché non ha un cuore. Fallisce come action perché non ha ritmo e potenza. Fallisce come fantasy perché non costruisce un mondo. Fallisce persino come trash “divertente” perché è troppo vuoto per diventare davvero iconico, troppo timido per essere delirante, troppo calcolato per essere libero.
Eppure, proprio per questo, resta un oggetto che continua a tornare: perché ha colpito un nervo scoperto. Dragon Ball è infanzia e formazione per milioni di persone. Evolution è l’esempio che il mercato, se non incontra resistenze, può prendere quella cosa e venderla come un prodotto qualsiasi. Per fortuna, qui la resistenza c’è stata: critica, fan, e – almeno a livello di dichiarazioni – persino l’autore. Se il sottoscritto dovesse riassumerlo in poche parole: Dragonball Evolution è il film che ha scambiato un mito per un marchio. E ha pagato il prezzo dell’equivoco.
