D’Annunzio Gabriele, l’Arcitaliano, seconda parte
D’Annunzio Gabriele, l’Arcitaliano
II Parte
di Giovanni Ognissanti
Altre Imprese
Benito Mussolini parlò con D’Annunzio nel tentativo di convincere De Ambris a rientrare in Italia dopo che la città divenne suddita del regno dei Savoia. A Parigi De Ambris non volle sapere di ritornare in patria, e si pose alla guida di un consorzio di cooperative di lavoro aventi l’obiettivo di procurare una sussistenza ai numerosi fuoriusciti antifascisti provenienti dalla provincia di Parma che vivevano allora in Francia. Nel paese transalpino fu in contatto con i più famosi esuli democratici quali Giovanni Amendola e Filippo Turati.
Il 31 dicembre 1920, D’Annunzio firmò la resa che portò alla costituzione dello “Stato libero di Fiume”, dopo che Italia e Regno Jugoslavo si misero d’accordo sull’autonomia del territorio (l’annessione all’Italia si ebbe nel 1924).
La beffa di Buccari fu invece un episodio della prima guerra mondiale avvenuto nella notte tra il 10 e l’11 febbraio 1918. Si trattò di un’incursione effettuata da motoscafi armati siluranti della Regia Marina contro naviglio austro-ungarico nella baia di Buccari.
Benché si sia trattato di un episodio dalla sostanziale irrilevanza militare riguardo alle conseguenze, cionondimeno la sua eco ebbe l’effetto di risollevare il morale dell’Italia, messo a dura prova dalla grave sconfitta di Caporetto di alcuni mesi prima.
Le unità designate all’operazione furono il MAS 94 (sottotenente di vascello CREM Andrea Ferrarini), il MAS 95 (tenente di vascello compl. Odoardo Profeta De Santis) e il MAS 96 (capitano di corvetta Luigi Rizzo) con, a bordo, il comandante di missione capitano di fregata Costanzo Ciano e Gabriele D’Annunzio.
Dopo quattordici ore di navigazione, alle 22:00 circa del 10 febbraio i tre MAS iniziarono il loro pericoloso trasferimento dalla zona compresa tra l’isola di Cherso e la costa istriana sino alla baia di Buccari dove, secondo le informazioni dello spionaggio, sostavano unità nemiche sia mercantili sia militari.
Alle 01:20 i MAS lanciarono i loro siluri; allo scoppio dei quali l’allarme fu immediato e i MAS presero subito la via del rientro e, giunti al punto di riunione prestabilito, rientrarono ad Ancona alle 7:45.
Le unità italiane riuscirono a riguadagnare il largo tra l’incredulità dei posti di vedetta austriaci, che non credettero possibile che unità italiane fossero entrate fino in fondo al porto e che non reagirono con le armi, ritenendo dovesse trattarsi di naviglio austriaco. Tre bottiglie suggellate dai colori nazionali furono lasciate su galleggianti nella parte più interna della baia di Buccari con, all’interno, un messaggio scritto da D’Annunzio, fatto che dette all’azione l’appellativo di “beffa di Buccari”.
«In onta alla cautissima Flotta austriaca occupata a covare senza fine dentro i porti sicuri la gloriuzza di Lissa, sono venuti col ferro e col fuoco a scuotere la prudenza nel suo più comodo rifugio i marinai d’Italia, che si ridono d’ogni sorta di reti e di sbarre, pronti sempre a osare l’inosabile. E un buon compagno, ben noto – il nemico capitale, fra tutti i nemici il nemicissimo, quello di Pola e di Cattaro – è venuto con loro a beffarsi della taglia»
Il volo su Vienna del 9 agosto 1918, detto anche “folle volo”, fu una trasvolata compiuta da otto Ansaldo S.V.A. dell’87ª Squadriglia aeroplani battezzata “La Serenissima”, ideata da Gabriele D’Annunzio, con la quale vennero lanciati nel cielo di Vienna migliaia di manifestini tricolori contenenti una provocatoria esortazione alla resa e a porre fine alle belligeranze. Il volo era stato progettato dallo stesso Gabriele D’Annunzio più di un anno prima, ma difficoltà tecniche e politiche, legate soprattutto al problema dell’autonomia degli apparecchi per un volo di mille chilometri e al rischio che il Poeta potesse finire in mani nemiche, con conseguenze propagandistiche incommensurabili, avevano indotto il comando supremo dapprima a negare il consenso e poi a ordinare cautamente delle prove di collaudo.
Lo SVA modificato, pilotato dal capitano Natale Palli, poteva così prendere parte al “folle volo”. Così l’autorizzazione necessaria all’impresa arrivò sotto forma di un bizzarro messaggio che avrebbe voluto attingere al dannunzianesimo (moda dell’epoca):[2]«Il volo avrà carattere strettamente politico e dimostrativo; è quindi vietato di recare qualsiasi offesa alla città […] Con questo raid l’ala d’Italia affermerà la sua potenza incontrastata sul cielo della capitale nemica. Sarà vostro Duce il Poeta, animatore di tutte le fortune della Patria, simbolo della potenza eternamente rinnovatrice della nostra razza. Questo annunzio sarà il fausto presagio della Vittoria»
All’alba del 9 agosto D’Annunzio convocò nell’hangar i piloti più fidati: Natale Palli, Antonio Locatelli, Gino Allegri, Daniele Minciotti, Aldo Finzi, Piero Massoni, Ludovico Censi, Giordano Bruno Granzarolo, Alberto Masprone, Vincenzo Contratti, Giuseppe Sarti e Francesco Ferrarin, legandoli a un solenne giuramento: «Se non arriverò su Vienna, io non tornerò indietro. Se non arriverete su Vienna, voi non tornerete indietro. Questo è il mio comando. Questo è il vostro giuramento. I motori sono in moto. Bisogna andare. Ma io vi assicuro che arriveremo. Anche attraverso l’inferno. Alalà!».
Finalmente, alle 5:30, dal Campo di Aviazione di San Pelagio (nel comune di Due Carrare, Padova) partirono gli undici apparecchi (dieci SVA monoposto e uno SVA modificato a due posti, guidato dal capitano Palli, nel quale si trovava D’Annunzio).
Di questi sette, arrivarono a destinazione, organizzati a cuneo e guidati dai seguenti piloti: il capitano Natale Palli e il maggiore Gabriele D’Annunzio; il tenente Ludovico Censi; il tenente Aldo Finzi; il tenente Giordano Bruno Granzarolo; il tenente Antonio Locatelli; il tenente Pietro Massoni; il sottotenente Girolamo Allegri detto «Fra’ Ginepro» per la folta barba. Dopo aver sorvolato la valle della Drava, i monti della Carinzia, la formazione italiana giunse su Vienna in gruppo compatto alle 9:20, mentre nelle strade e piazze sottostanti si stava verificando un grande concorso di folla, impaurita della presenza degli aeromobili. Grazie alla limpidezza del cielo, lo stormo poté abbassarsi a una quota inferiore agli 800 metri e lanciare 50 000 copie di un manifestino in italiano preparato da D’Annunzio, tuttavia furono lanciate anche 350 000 copie di un secondo volantino, più pratico quanto efficace, manifestino scritto da Ugo Ojetti:
VIENNESI!
Imparate a conoscere gli italiani.
Noi voliamo su Vienna, potremmo lanciare bombe a tonnellate. Non vi lanciamo che un saluto a tre colori: i tre colori della libertà.
Noi italiani non facciamo la guerra ai bambini, ai vecchi, alle donne.
Noi facciamo la guerra al vostro governo nemico delle libertà nazionali, al vostro cieco testardo crudele governo che non sa darvi né pace né pane, e vi nutre d’odio e d’illusioni.
VIENNESI!
Voi avete fama di essere intelligenti. Ma perché vi siete messi l’uniforme prussiana? Ormai, lo vedete, tutto il mondo s’è volto contro di voi.
Volete continuare la guerra? Continuatela, è il vostro suicidio. Che sperate? La vittoria decisiva promessavi dai generali prussiani? La loro vittoria decisiva è come il pane dell’Ucraina: si muore aspettandola.
POPOLO DI VIENNA, pensa ai tuoi casi. Svegliati!
VIVA LA LIBERTÀ!
VIVA L’ITALIA!
VIVA L’INTESA!
Dopo aver sganciato i manifestini lo stormo prese la via del ritorno, alle 12:40 gli aerei rientrarono al campo di San Pelagio dopo aver percorso in sette ore e dieci minuti mille chilometri, e oltre ottocento su territorio austriaco a sfida di ogni avversità balistica e aerea.
D’Annunzio, esultante per il buon esito della sua impresa, inviò alla Gazzetta del Popolo di Torino il seguente telegramma:
«Non ho mai sentito tanto profondo l’orgoglio di essere italiano. Fra tutte le nostre ore storiche, questa è veramente la più alta… Solo oggi l’Italia è grande, perché solo oggi l’Italia è pura fra tante bassezze di odii, di baratti, di menzogne».
Il volo su Vienna, pur essendo stato militarmente inoffensivo, ebbe una vastissima eco morale, psicologica e propagandistica sia in Italia sia all’estero, e compromise sensibilmente l’opinione pubblica dell’Impero asburgico. La stessa stampa austriaca accolse favorevolmente l’«incursione inerme» (così fu definita) degli aerei italiani a Vienna: D’Annunzio, che noi ritenevamo un uomo gonfio di presunzione, l’oratore pagato per la propaganda di guerra grande stile, ha dimostrato d’essere un uomo all’altezza del compito e un bravissimo ufficiale aviatore. Il difficile e faticoso volo da lui eseguito, nella sua non più giovane età, dimostra a sufficienza il valore del Poeta italiano che a noi certo non piace dipingere come un commediante.
E i nostri D’Annunzio, dove sono? Anche tra noi si contano in gran numero quelli che allo scoppiar della guerra declamarono enfatiche poesie. Però nessuno di loro ha il coraggio di fare l’aviatore!» (Arbeiter Zeitung)
Da alcuni esponenti politici e della cultura dello stivale Gabriele D’Annunzio è tuttora considerato un destroide, è invero un eroe nazionale, un eroe italiano, anzi un è “arci italiano”.
Riportiamo per concludere una delle sue più belle poesie nella quale emerge la nostalgia per la terra natia… (luogo dove ritroviamo sempre la nostra vera identità; cfr. Leopardi, Pascoli), altro che Decadentismo!.
I Pastori
Settembre, andiamo. È tempo di migrare.
Ora in terra d’Abruzzi i miei pastori
lascian gli stazzi e vanno verso il mare:
scendono all’Adriatico selvaggio
che verde è come i pascoli dei monti.
Han bevuto profondamente ai fonti
alpestri, che sapor d’acqua natia
rimanga né cuori esuli a conforto,
che lungo illuda la lor sete in via.
Rinnovato hanno verga d’avellano.
E vanno pel tratturo antico al piano,
quasi per un erbal fiume silente,
su le vestigia degli antichi padri.
O voce di colui che primamente
conosce il tremolar della marina!
Ora lungh’esso il litoral cammina
La greggia. Senza mutamento è l’aria.
Il sole imbionda sì la viva lana
che quasi dalla sabbia non divaria.
Isciacquio, calpestio, dolci romori.
Ah perché non son io cò miei pastori?