Spettacolo Italia

Sailor Moon e il Signore del Tempo: la “sesta serie” mai nata

Negli anni ’90 Mediaset valutò un’operazione “taglia&cuci” su Sailor Moon: una trama inedita tra quarta e quinta serie.

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C’è un tipo di leggenda che in Italia attecchisce meglio dell’edera: quella del “cartone perduto”. Basta un titolo suggestivo, due mezze frasi in un’intervista e qualche ricordo da forum, e il mito è servito.
“Sailor Moon e il Signore del Tempo” appartiene a questa specie: un progetto attribuito all’area ragazzi Mediaset, pensato per riempire un vuoto di programmazione quando Sailor Moon era ancora un fenomeno di massa, ma gli episodi “nuovi” non arrivavano abbastanza in fretta.
Non parliamo di una serie giapponese cancellata, né di un sequel ufficiale Toei: l’idea, per come emerge dalle fonti disponibili, sarebbe stata italiana, cucita addosso a materiale già esistente.
Un’operazione borderline tra creatività industriale e bricolage televisivo: rimontare scene delle prime stagioni, ridoppiarle, aggiungere una narrazione “ponte”, costruire l’illusione di una stagione inedita.
Il risultato non vide mai la luce, ma il titolo è sopravvissuto. E oggi, a distanza di decenni, continua a tornare fuori come un fantasma pop: ognuno ci appiccica un pezzo diverso di memoria, desiderio o pura fantasia.

Sailor Moon e la fortuna in Italia

In Giappone l’anime classico di Sailor Moon (di produzione Toei, la stessa casa di Dragon Ball e One Piece) va in onda dal 1992 al 1997, per cinque serie TV e 200 episodi complessivi. In Italia, invece, l’arrivo sulle reti Mediaset a metà anni ’90 lo trasforma rapidamente in un appuntamento quotidiano e poi in un brand che “regge” fasce importanti: repliche, merchandising, home video, musica, collaterali.

Questo dettaglio non è folclore: è la chiave. Il mercato televisivo italiano dell’epoca vive di continuità e abitudine. Se un titolo funziona, non lo si “spegne” facilmente, perché spegnere significa perdere inerzia, pubblico, promozione incrociata. E Sailor Moon, in quel momento, è un motore acceso. Il progetto relativo a “Il Signore del Tempo” nasce da questa esigeza: il timore di restare senza episodi mentre il marchio era ancora all’apice. Da qui l’idea che oggi suona assurda ma allora era perfettamente coerente con certe logiche aziendali: creare tempo. Letteralmente. Se non arrivano puntate nuove, si fabbricano settimane di programmazione con ciò che si ha in magazzino.

“Taglia&cuci” come metodo: l’editing diventa sceneggiatura

Qui entra in scena un elemento spesso sottovalutato: Mediaset, in quegli anni, non si limita a trasmettere anime. Li rimodella. Pare che per realizzare tale serie si fosse pensato di usare inserti e flashback per “allungare” o rimodulare gli episodi in base alla fascia e al contenitore. L’idea del “Signore del Tempo”, sempre secondo la stessa linea narrativa, avrebbe portato questa pratica al livello successivo: non più piccole cuciture, ma una vera trama-cornice, sostenuta da un nuovo doppiaggio capace di dare senso (o almeno l’illusione di un senso) a scene provenienti da stagioni diverse. È importante capirlo: non sarebbe stata un’operazione di animazione nuova, ma un’operazione di montaggio + scrittura + doppiaggio. Un prodotto “nuovo” ottenuto per riassemblaggio, come certi film compilation o come alcune operazioni televisive di allora che trasformavano materiale preesistente in “evento”.

Chi lo avrebbe scritto?

Secondo quanto leggiamo dal blog di Mikimoz, la nascita del progetto a un lavoro interno Mediaset, con il coinvolgimento di Nicola Bartolini Carrassi e la compianta Alessandra Valeri Manera. Carrassi e Valeri Manera sono figure centrali nel contesto dell’epoca, soprattutto per ciò che riguarda produzione, adattamento, musica, prodotti collaterali e “macchina” editoriale attorno agli anime. In un’intervista dedicata ad altri aspetti (album, produzione, materiali, metodo di lavoro), Carrassi descrive un ambiente in cui proposte, idee e pacchetti editoriali erano parte del quotidiano, e cita esplicitamente Valeri Manera come riferimento produttivo e decisionale.

La trama “ufficiosa”: Tomoe che risveglia i nemici del passato

Ed eccoci al cuore pop del mito: cosa sarebbe successo in questa pseudo-stagione? La trama ipotizzata pare fosse questa: il dottor Tomoe, figura centrale della terza serie (Sailor Moon S), avrebbe in qualche modo “riattivato” o risvegliato vecchi nemici, costringendo le guerriere a riaffrontare avversari delle stagioni precedenti. In pratica, un grande “best of” narrativo, giustificato diegeticamente: non solo riciclo di scene, ma riciclo trasformato in concept.

Questa idea, vista oggi, sembra quasi una fanfiction. Ma dal punto di vista televisivo è una trovata funzionale: permette di saltare da un’epoca all’altra dell’anime senza che lo spettatore casuale si senta tradito (troppo). È una scusa per mettere in fila momenti forti, trasformazioni iconiche, villain riconoscibili, e farlo con una voce narrante o dialoghi riscritti.

Ovviamente, un progetto simile, se fosse stato concretizzato, avrebbe presentato irrimediabilmente delle incongruenze: poteri, spille, trasformazioni, stili di disegno diversi, continuità impossibile da far quadrare. Ed è qui che “Il Signore del Tempo” diventa affascinante: perché è un progetto che, proprio nel tentativo di salvare la continuità televisiva, avrebbe probabilmente prodotto l’oggetto più discontinuo possibile.

Un titolo perfetto per una serie Made in Italy

“Sailor Moon e il Signore del Tempo” è un titolo che sembra nato per essere ricordato. Ha tre qualità micidiali. La prima è narrativa: promette un antagonista o un mistero “alto”, quasi cosmico. Il tempo, in Sailor Moon, è già tema ricorrente (basti pensare a Chibiusa e ai futuri possibili o a Sailor Pluton, custode del tempo). Quindi il titolo suona coerente. La seconda è televisiva: il “tempo” è letteralmente ciò che la TV voleva creare. Riempire un buco. Dilatare una programmazione. La terza è memetica: è abbastanza specifico da sembrare reale, ma abbastanza generico da permettere a chiunque di inventarci sopra. Ed è esattamente quello che è successo.

La nebbia del fandom: quando una voce diventa “stagione 6”

Un segnale chiarissimo di questa deriva è la presenza, online, di ricostruzioni completamente fantasiose presentate come se fossero ufficiali: “52 episodi”, “nuove guerriere”, “nuovi nemici”, perfino ipotesi di messa in onda su TV Tokyo o Italia 1 in anni recenti. Qui siamo oltre la leggenda: siamo nel territorio del mito autoalimentato, dove il nome del progetto diventa un contenitore per desideri e “what if”.

Queste ricostruzioni non provano nulla sulla realtà del progetto; provano però qualcosa di molto interessante su di noi: quando un brand è importante, l’idea di “episodi perduti” diventa irresistibile. È un modo per riaprire una porta emotiva. E Internet, si sa, è bravissima a confondere la porta con il muro.

Ma quindi: è esistito davvero?

Un progetto simile era realmente nelle intenzioni di Mediaset. Abbiamo ricostruzioni dettagliate che descrivono il progetto come “serie italiana mai nata”, con script arrivato persino in Giappone e una logica di produzione fondata sul patchwork di scene già trasmesse. Abbiamo discussioni di community che citano vecchi articoli e “box” su riviste, invitando però alla prudenza perché nel tempo sono circolate molte versioni contraddittorie. Abbiamo, più in generale, testimonianze e interviste che confermano quanto fosse intensa la macchina editoriale intorno agli anime su Mediaset e quanto fosse normale proporre idee, concept e prodotti paralleli.

Manca invece, almeno tra le fonti immediatamente reperibili, un “dossier ufficiale” pubblicato integralmente: trattamento, bibbia di serie, scalette, copioni, documenti aziendali. E senza quel mattone, “Il Signore del Tempo” resta in quella zona grigia dove la TV commerciale anni ’90 è maestra: abbastanza vero da avere senso, abbastanza sfuggente da diventare leggenda.

Perché non si fece?

Pare che i giapponesi avessero bocciato categoricamente la creazione di una simile serie prodotta in Italia. Fatto sta che la quinta stagione “vera” (Sailor Stars) sarebbe arrivata in tempi tali da rendere inutile o rischiosa l’operazione ponte. Ed è una spiegazione molto plausibile. Perché un progetto del genere avrebbe avuto un costo nascosto enorme: non solo soldi, ma reputazione interna, rischi di confusione editoriale, possibili frizioni con il licenziante, e la possibilità concreta di fare arrabbiare il pubblico più fedele nel momento in cui si fosse accorto dell'”inganno”.

In più, Sailor Moon aveva già un problema fisiologico: la continuità visiva cambia tra stagioni, lo stile si modifica, i dettagli di design evolvono. Un patchwork avrebbe reso questi salti ancora più evidenti. Anche con il miglior doppiaggio del mondo, la cucitura avrebbe scricchiolato.

Un’ipotesi ragionata

Se prendiamo sul serio l’idea industriale dietro il titolo, la cosa più sensata è immaginarlo come piano di emergenza. Non una “nuova stagione” nel senso creativo, ma un prodotto tampone: una strategia per non perdere lo slot e per guadagnare settimane o mesi mentre si attendevano materiali o decisioni.

Questa lettura spiega anche perché il progetto si presti a essere ricordato in modo confuso: se era un piano B, poteva esistere come trattamento, come discussione, come script preliminare, senza mai diventare produzione. In TV succede continuamente: centinaia di idee vengono sviluppate “abbastanza” da lasciare tracce, ma non abbastanza da diventare oggetti concreti.



Il vero fascino del “Signore del Tempo”

Alla fine, il punto non è solo se esistesse o no una “sesta serie”. Il progetto era reale, questo è assodato. Il punto è cosa rappresenta. Rappresenta un’epoca in cui la televisione dei ragazzi era una fabbrica culturale, con tempi stretti, esigenze di palinsesto, e una libertà di intervento sul materiale importato che oggi farebbe esplodere internet in 0,3 secondi.

Rappresenta anche l’ambivalenza del fandom italiano: da un lato indignazione per censure e rimaneggiamenti; dall’altro una tenerezza quasi romantica per quel caos artigianale, per quella fantasia senza limiti tipica dei tempi di Bim Bum Bam e Game Boat che è diventata memoria e che, soprattutto, rappresenta la nostra passione nazionale per le storie “dietro le quinte”. Perché, spesso, ci interessano più dei prodotti stessi. Il cartone perduto è la versione pop del manoscritto ritrovato: ci illude che ci sia ancora qualcosa da scoprire, che l’infanzia abbia una scena tagliata da restituirci.

Una leggenda, ma neanche tanto

Sailor Moon e il Signore del Tempo” ha un nucleo reale: un progetto-ponte, italiano, basato su rimontaggio e ridoppiaggio, pensato per ragioni di palinsesto e di sfruttamento del brand. Attorno a quel nucleo, però, si è costruita una galassia di versioni alternative, spesso contraddittorie, talvolta apertamente inventate. Il risultato è un oggetto culturale curioso: non una serie, ma una storia su come le serie diventano mito. Un “cartone mai realizzato” che, proprio perché non esiste, è diventato infinite cose diverse nella testa di chi lo racconta. E in fondo è perfettamente coerente col titolo: il Signore del Tempo non è un villain. È la memoria collettiva, che rimonta, ridoppia e riscrive tutto. Anche noi.

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