Manfredonia: nessun cambio di rotta, dai numeri solo povertà

Manfredonia: nessun cambio di rotta, dai numeri solo povertà
Il titolo “Manfredonia città regressiva” fa scena, ma se lo si tratta come una clava politica si rischia di trasformare un tema serio, la demografia, in un racconto di propaganda. I numeri utilizzati in questi giorni citati, in gran parte, sono corretti e non vanno negati: Manfredonia nel 2025 conta 53.391 residenti e, rispetto al 2024, ne perde 331; diminuiscono giovani e adulti, aumentano gli anziani; l’età media cresce. È un quadro oggettivo e l’ISTAT lo fotografa con chiarezza. Proprio per questo, però, occorre un passo in più: contestualizzare, confrontare e distinguere ciò che è struttura da ciò che è narrazione, altrimenti si finisce per usare la sofferenza sociale come argomento “a supporto” dell’amministrazione di turno.
Partiamo dai fatti, perché i fatti sono il miglior antidoto alla propaganda. Guardando i dati al 1° gennaio dal 2005 al 2025, Manfredonia passa da 57.424 a 53.391 residenti: un calo di circa 4.033 persone, quindi una riduzione intorno al 7% in vent’anni. Ma il numero totale è solo la superficie: la trasformazione decisiva è dentro le fasce d’età. I giovani 0–14 anni scendono da 9.985 a 6.376, cioè più di un terzo in meno; gli over 65 salgono da 8.618 a 13.200. Tradotto: non è solo “meno gente”, è una piramide che si rovescia. E l’ultimo anno non è una “deviazione” ma la conferma della tendenza: tra 2024 e 2025 i giovani calano di 228 unità, gli adulti di 315, gli anziani aumentano di 212.
Se qualcuno prova a raccontare un “cambio di rotta”, i numeri lo smentiscono pesantemente. E poi, per cambiare davvero la rotta, serve una buona imbarcazione, un comandante autorevole e riconosciuto, e un equipaggio all’altezza.
Nella realtà, al netto di qualche buon marinaio, il resto semplicemente non esiste.
Detto questo, l’articolo di propaganda fa una scelta narrativa precisa: prende un fenomeno nazionale, l’invecchiamento e la riduzione della natalità, e lo riconduce principalmente a una storia locale fatta di “mala gestione”, credibilità perduta e amministrazioni sbagliate, fino a costruire una chiusura consolatoria: una lettera inviata agli over 75 come “significativa promettente inversione delle tendenze amministrative”. Qui sta il punto debole.
La demografia non cambia con un gesto comunicativo, e soprattutto non la si può usare per certificare la bontà di un’amministrazione. Semmai, la demografia impone di misurare la qualità di governo su cose verificabili: politiche per la casa e l’affitto che riducano l’emorragia di giovani famiglie; servizi educativi che rendano possibile avere figli senza scivolare nella povertà; opportunità di lavoro e formazione che trattengano competenze; un sistema di mobilità e di welfare territoriale coerente con una popolazione che invecchia. Una lettera può essere utile, persino doverosa, ma non è un cambio di rotta: non è nemmeno un segnale di presenza. E, da solo, non sposta di un millimetro l’indice di vecchiaia o il saldo naturale.
In realtà, per capire la portata del problema bisognerebbe fare ciò che un pezzo serio fa sempre: confrontare Manfredonia con città simili. Per dimensione e dinamica demografica, Manfredonia non è un’eccezione isolata. Ci sono comuni di taglia comparabile in cui la struttura regressiva è persino più accentuata: Campobasso, Viareggio, Rovigo; e poi realtà più vicine per contesto territoriale come San Severo. Non è un modo per “assolvere” Manfredonia, ma per capire che la traiettoria non si spiega con un solo fattore locale e non si risolve con slogan.
In alcune città il numero complessivo regge, ma l’invecchiamento avanza lo stesso: segno che puoi anche non perdere residenti e tuttavia diventare una comunità più anziana, con meno bambini e meno popolazione attiva. È un cambio di struttura che incide sul futuro del lavoro, sulla sostenibilità dei servizi, sulla scuola, sul commercio di prossimità, sul bisogno di assistenza domiciliare, sulla sanità territoriale. L’articolo lo intuisce quando parla di “bisognosi a vario titolo”, ma poi scivola nella semplificazione: la fragilità non è solo il volto della povertà “che non arriva a fine mese”.
Fragilità, oggi, è anche la solitudine, la non autosufficienza, la dipendenza da una rete familiare più debole perché i figli sono meno e spesso lontani, la difficoltà di accesso ai servizi, la casa inadatta, l’assenza di trasporti, la mancanza di prossimità.
C’è poi un’altra ambiguità: l’elenco dei benefici e degli interventi sociali viene presentato come prova di “regolarità delle operazioni” e, implicitamente, come misura della bontà dell’azione amministrativa. Ma quei numeri raccontano soprattutto un’altra cosa: la dimensione del bisogno e, in alcuni casi, l’insufficienza delle risposte rispetto alla domanda. Se per l’affitto arrivano molte richieste e una parte consistente resta fuori, il fatto che l’istruttoria sia regolare non risolve il problema sostanziale: quante famiglie non riescono a sostenere un canone, quanta precarietà abitativa c’è in città, quanta emigrazione giovanile è spinta non solo dal lavoro ma dal costo e dalla qualità della vita. La trasparenza è necessaria, ma la politica sociale non si valuta sulla correttezza burocratica, si valuta sull’impatto.
Ecco perché la categoria “città regressiva”, presa da sola, rischia di diventare una definizione che condanna senza spiegare. Il fenomeno è reale, ma non è un destino astratto: è una conseguenza di scelte, di opportunità mancate e di condizioni economiche e culturali. Una città smette di essere attrattiva quando non offre lavoro stabile, quando i servizi non sostengono i progetti di vita, quando l’accesso alla casa è difficile, quando l’offerta formativa e culturale non trattiene i giovani, quando la mobilità è insufficiente e il territorio non riesce a valorizzare le sue vocazioni. Se si vuole davvero parlare di demografia con serietà, allora bisogna dire anche questo: l’invecchiamento è un dato, ma la vera partita è la capacità di una comunità di trattenere e attrarre persone in età attiva e di rendere possibile la natalità. Senza moralismi e senza autocelebrazioni.
Infine, c’è un punto di onestà intellettuale che un articolo “di approfondimento” non può evitare: usare la regressione demografica per costruire un racconto di rinascita amministrativa in un anno e mezzo è una scorciatoia. La demografia ha inerzia lunga, e un’amministrazione la si giudica su politiche con orizzonte pluriennale. Se davvero si vuole uscire dalla propaganda, il tema va spostato dalle frasi ad effetto ai parametri misurabili: saldo migratorio, saldo naturale, tasso di natalità, occupazione giovanile, servizi per l’infanzia, politiche abitative, presa in carico della non autosufficienza, mobilità verso poli di studio e lavoro. Solo lì si capirà se Manfredonia sta governando la transizione o la sta subendo.
Se poi vogliamo essere ancora più seri, dobbiamo dirci una cosa semplice: un eventuale cambio strutturale della tendenza demografica è possibile solo con politiche europee e nazionali più complesse e di lungo periodo. Il tema riguarda ormai quasi tutto il vecchio continente, e le politiche locali possono al massimo spostare qualche decimale del dato.
Dove invece possono e devono fare la differenza è altrove: nella qualità dei servizi e nella qualità della vita delle persone che vivono nella città che si amministra.
Manfredonia è “regressiva” nel senso demografico del termine, sì. Ma non è una formula per fare polemica né un’occasione per mettere una coccarda. È un allarme che riguarda tutti: chi amministra oggi e chi ha amministrato ieri, chi fa opposizione e chi fa maggioranza, chi vive qui e chi è andato via. Se vogliamo affrontarlo seriamente, la prima cosa da fare è liberare i numeri dalla propaganda e restituirli alla loro funzione vera: aiutare la città a capire dove sta andando e cosa deve cambiare, davvero, per non continuare a perdere futuro.
E i numeri, che dovrebbero “dare la misura reale delle posizioni considerate”, in realtà certificano una cosa sola: una massa crescente di bisogno che il Comune non riesce a soddisfare, perché le domande respinte sono quasi tante quanto quelle accolte. Le risorse del bilancio comunale messe a disposizione sono ridicole, mentre quelle spese per feste e festicciole risultano rilevanti, a discapito della povertà.
La gestione del welfare è arcaica e lenta. E questo nonostante una presenza importante di risorse umane. Anche le risorse economiche disponibili grazie al Piano Sociale di Zona, se confrontate con quelle effettivamente spese, producono un dato impietoso: la spesa è ridicola rispetto al disponibile. Tutto ciò accade perché il settore procede per inerzia e non cambia modalità di approccio ai bisogni.
I poveri e i loro bisogni vengono vissuti come un fastidio. La povertà la si aspetta dietro uno sportello, quando invece oggi, nell’epoca dell’intelligenza artificiale, le povertà si possono intercettare, andare a cercare, per andare incontro ai bisogni prima che esplodano. Su queste affermazioni mi permetterò di fornire un focus puntuale su quest’anno che sta per finire.
Credo sia giunto il momento di operare con umiltà: meno proclami, meno comunicati, meno selfie, e più lavoro, più coraggio, più cambiamento. Diversamente, tornate a fare il mestiere che vi riesce meglio: certo pagato meno, ma con anche meno danni per la collettività.
Altro che regolarità delle operazioni: qui è povertà strutturale.
Il paradosso finale è che l’articolo descrive con precisione chirurgica il fallimento di un modello, ma prova a venderlo come segnale di fiducia istituzionale.
No: questa non è un’inversione di tendenza.
È la fotografia gentile di una città che invecchia, si impoverisce e viene amministrata a colpi di comunicati.
Manfredonia non è “regressiva” per destino.
È regressiva perché per anni non si è scelto, non si è programmato, non si è costruito futuro.
E il futuro, purtroppo, non arriva per posta ordinaria.
Palombella Rossa