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Il culto per i morti a Manfredonia di Franco Rinaldi

Il culto per la sepoltura dei morti, a partire dai Dauni, nostri avi, provenienti dalle regioni illiriche, ha inizio dalla prima età; del Ferro e si protrae fino al IV sec. a.C.
Le Stele Daunie custodite presso il Museo Nazionale nel Castello Svevo-Angioino di Manfredonia sono prova tangibile della grande venerazione che i nostri antenati riservavano ai morti.
Le stele documentano e raccontano, fatto unico tra le genti italiche di quel tempo, la vita e la religione dei Dauni della piana di Siponto. Le sepolture nella Grotta Scaloria confermerebbero la sacralità; del luogo, e attesterebbero la presenza umana intorno al IV millennio a.C.
La necropoli paleocristiana in contrada Capparelli, costituisce una delle più rilevanti e preziose documentazioni della Siponto paleocristiana, perchè luogo di culto per la sepoltura dei morti.
Nel Medio Evo si diffuse l’uso dell’inumanazione nelle chiese. Anche a Manfredonia i primi luoghi che ospitarono i morti furono le chiese. I Camposanti per la sepoltura dei morti furono opera dei pii devoti e del Cristianesimo.

 

I Camposanti a Manfredonia

Nel 1677 l’Arcivescovo Vincenzo Maria Orsini fece costruire un cimitero accanto al Duomo. Ma le esalazioni di gas che si sprigionavano dalle tombe del cimitero, da quelle del Duomo e delle altre Chiese, nei mesi estivi costrinsero il successivo Arcivescovo della Città; Mons. Tommaso Francone a trasferire nel 1783 il camposanto fuori delle mura cittadine, in zona Chiesa della “Croce”. Purtroppo, in quel cimitero trovavano sepoltura solo povere persone.

La Legge del 5 settembre 1806 rese obbligatoria la costruzione dei cimiteri a 200 metri dall’abitato e nonostante il divieto, a Manfredonia fino al 20 novembre 1824, alcuni defunti furono ancora seppelliti in chiese cittadine.

Nel 1813 re Gioacchino Murat visitò Manfredonia. In quell’occasione Francesco Landini, priore dell’Arciconfraternita della Morte e dell’Orazione gli chiese in donazione il decadente convento dei Cappuccini con annessa chiesa ridotta a una misera stalla, impegnandosi di riaprire la Chiesa al Culto e costruire un nuovo cimitero, con mura e nicchie per seppellire i fratelli e sorelle della Congrega di S. Matteo e dei Galantuomini che potevano pagarsi la sepoltura.

L’Arciconfraternita della Morte e dell’Orazione nel 1859 costruì una Cappella dove trovavano sepoltura i propri fratelli e sorelle deceduti, e provvide al trasporto e tumulazione di tutti gli altri defunti (povera gente) in fosse scavate sotto terra “ndi solche”.

Sempre nell’800 furono costruite all’ingresso del nuovo cimitero le prime tombe monumentali appartenenti a famiglie nobili e facoltose della Città;, che rispettavano lo stile Gotico della Chiesa dell’Umiltà; e dell’annesso convento dei Cappuccini.

Sempre nell’800, altre Confraternite costruirono a proprie spese tombe per i fratelli e sorelle della propria congrega defunti: La Confraternita di Santa Maria del Carmine (tomba del Carmine): La Confraternita del Rosario (tomba di S. Domenico); La Confraternita del Santissimo Cuore di Gesù (Tomba di S. Maria).

Il primo libro cittadino dei morti risale al 1656.

Dai registri dei morti, atto del 18.8.1720, si rileva che i peccatori e le peccatrici di concubinato venivano caricati su un asino, e dopo aver attraversato le vie della Città;, venivano seppelliti fuori delle mura. A costoro era fatto divieto di entrare in chiesa per la benedizione.

 

Il Lutto

Quando una persona passava a miglior vita, era consuetudine nella nostra comunità; mettere in bocca al defunto uno spicchio d’aglio per allontanare i cattivi spiriti, sostituito successivamente da una moneta, perchè si credeva che dovesse con questa pagare il nolo della barca per il passaggio del fiume Cerbalo (ora Cervaro) a Pantaleone (Caronte).
Quando veniva a mancare il marito, la vedova difficilmente si risposava e così faceva il vedovo.
In caso di morte di un parente, gli uomini non si radevano la barba per un mese e portavano il lutto per tre anni. Tutti i parenti stretti del defunto si vestivano di nero per un certo periodo (un anno). Il lutto veniva evidenziato successivamente, con un fazzoletto alla gola, o con strisce di stoffa nera che venivano cucite sulla manica (a sinistra) della giacca, del cappotto o maglione, con un bottone nero, e persino con una fascia nera intorno al cappello.

Le donne (le madri) invece portavano il lutto fino a quando non si sposava il primo figlio o figlia.

Quando moriva qualcuno, parenti e amici mandavano caffè e biscotti (i savoiard) ai parenti del defunto.

Dopo la tumulazione era cosuetudine (ora in forma minore) fare “U Cunzùle”. Tutti i parenti stretti del defunto pranzavano isnieme. Il pranzo era preparato da qualcuno dei familiari.

 

La Festa di Tutti i Santi e la Commemorazione dei Morti

In occasione della Festa di Tutti i Santi (1o Novembre) e della Commemorazione dei Morti (2 Novembre), tradizione vuole che alcuni giorni prima ci si recasse al cimitero “a pulezzè i nicchie” (a pulire le lapidi), “a lucedè i porta fotografie” e “i porta fiure” e a far ridipingere iscrizioni ed epigrafe commemorative dei defunti dipinte a mano sulle lapidi e tombe da pittori locali, ed infine a deporre crisantemi, garofani ed altri fiori (per chi se lo poteva permettere).

Un rito eseguito in gran silenzio, rotto solo dalle grida “malinconiche” di ragazzi che vendevano piccoli ceri al grido: “Cerotte pa lampe uè”.

L’ultimo artista sipontino che si è cimentato a dipingere e sistemare le iscrizioni di epigrafe commemorative sulle lapidi e tombe nel cimitero è stato un certo Gennaro Clemente detto “Ze Nenille”. Questi, che era un tipo molto coraggioso, nel periodo che precedeva la Festa dei Morti, rimaneva nel cimitero anche di notte per eseguire il suo lavoro.

Nella nostra tradizione in occasione della Commemorazione dei Morti il grano dei Morti veniva mangiato cotto preparato con altri ingredienti, quali chicchi di melograno, cioccolato, mandorle tostate, pezzettini di fichi secchi, latte, ecc.

É credenza popolare che nella notte tra il giorno di Ognissanti e il 2 Novembre, i morti ritornino sulla terra per far visita alle proprie case, dove “l’Anime u Priatorje” (le Anime del Purgatorio) trovavano preparata “A tavele” imbandita con pane e acqua affinchè si rifocillassero durante il loro girovagare. Nel bicchiere si lasciava una palma benedetta.
I fanciulli usavano mettere una calza vuota “A cavezètte de l’anime i murte” appesa ai piedi del proprio letto o dietro “U varrone da porte” (sbarra di ferro che sosteneva la porta d’ingresso) perchè convinti che i morti li riempivano di doni.

In realtà; erano i genitori che preparavano “A cavezètte (la calza dei Morti) che riempivano di noci, castagne lesse o arrostite, fichi secchi, melecotogne, carrube, melegrane, cachi “Legnà;sande alla vainile”, ed altro.

L’entità; dei doni dipendeva dalle condizioni economiche della famiglia. Tutti i bambini, come credevano, avevano la loro calza riempita di doni.

Anticamente la calza era fatta a mano e rappresentava una modesta attività; popolare.

In qualche calza i genitori mettevano pezzi di carbone per qualche figlio discolo, per fargli capire che erano stati i morti che lo avevano voluto punire per la sua cattiveria.

C’era un detto popolare che spesso le mamme rivolgevano ai figli indisciplinati che così recitava: “Se fe u cattive i murte te mettene i carevùne ‘nda cavezette” (se fai il cattivo i morti ti metteranno i carboni nella calza).

Questa usanza è scomparsa da molti anni, sostituita da calze confezionate e piene di cioccolatini, pasticcini e giocattoli che si comprano in bar e supermercati.

Il giorno della Festa dei Morti i ragazzi giravano per le case di parenti e conoscenti con la calza lunga che portavano a penzoloni sulle spalle nella speranza di riempirla di doni al grido “L’Anime i Murte”, “A cavezette de l’Anime i Murte”.

I pescatori di Manfredonia il giorno dei morti evitavano di uscire con le barche, anzitutto per rispetto dei tanti dispersi in mare e poi perchè per credenza popolare si dice che in quei giorni si teme che si pescano “I ciucchetelle”.

Il culto dei morti nella nostra comunità; è ancora vivo, la maggior parte dei sipontini durante i giorni della ricorrenza invade letteralmente il cimitero per deporre fiori sulle tombe dei propri cari defunti.

 

Veche spisse au cambesande
u vogghje dice a tutte quande,
ma all’Aneme i Murte e tutte i Sande
c’è vulesse sckitte a bande.
Chi rire, chi ve pazzià;nne
chi fe llite per la schele,
chi arrobbe fiure dalli nicchie
e li mette … a li murte suve.
Stè chi c’ji ingègne lu taerre
e chi calpeste i murte ca stanne nderre.
Stè chi ve zengherianne
e chi mette orchidoje bianche a vicchje
de nuandà;nne.
Inzomme nu poche de respette
di chi vecine a Duje stè allu cuspette
pecchè jogge sime vive,
ma dumène tocche a nnuje.

 

Il 2 Novembre, giorno seguente alla festa di Tutti i Santi, la Chiesa celebra la commemorazione di Tutti i Fedeli Defunti e prega per le anime che sono in purgatorio. Questa festa è di origine cluniacense e si fa risalire a Sant’Odilone (abate di Cluny) che nell’XI sec. Fissò la data, per i suoi monaci, al 2 novembre. Precedentemente si tenevano gli stessi riti nel giorno seguente all’anniversario della dedicazione della chiesa del luogo. All’epoca di Sant’Isidoro di Siviglia (560-636), perlomeno in Spagna, il giorno dedicato alla commemorazione dei defunti era il lunedì seguente la Pentecoste.
La regola, secondo la quale ciascun sacerdote celebrava tre messe da requiem il 2 novembre, sembra aver avuto inizio nel XV sec. Tra i Domenicani della Spagna e, nel 1748, dopo l’approvazione papale, pare sia stata ampliata ai paesi sottoposti all’influenza spagnola o portoghese. Benedetto XV nel 1915, spinto dalla tragedia della I guerra mondiale, estese a ogni sacerdote il privilegio di celebrare tre messe il 2 novembre per accrescere le possibilità; di suffragio a favore di tutti i Defunti.

Attenzione: è importante ricordare che in questo giorno si può lucrare l’indulgenza Plenaria applicabile soltanto ai Defunti.

Franco Rinaldi

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Redazione

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