Curiosità

Freedomland, cos’era davvero l’Internet in TV? Funzionava?

Nel 1999 Freedomland prometteva Internet sul televisore di casa, con un decoder, un telecomando e Gerry Scotti come testimonial.

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Alla fine del 1999, mentre il modem 56k gracchiava nelle case italiane e la parola “Internet” cominciava appena a entrare nel vocabolario quotidiano, qualcuno ebbe un’idea che oggi definiremmo quasi profetica: portare il Web direttamente in salotto, sul televisore, senza bisogno di computer. Quell’idea si chiamava Freedomland, un servizio di Internet TV veicolato da un set-top box con modem integrato, pensato per trasformare qualunque TV con presa SCART in una finestra digitale sul mondo. Il progetto nacque a Milano, su iniziativa dell’imprenditore Virgilio Degiovanni, e venne lanciato commercialmente nel 1999 come “prima web TV italiana”, con un portale ricco di contenuti, accordi con Infostrada, banche e sponsor televisivi. L’oggetto che arrivava nelle case era un piccolo decoder nero, collegato alla linea telefonica e al televisore: bastava accenderlo e, tramite un telecomando con tastierino e una tastiera a raggi infrarossi, ci si ritrovava davanti a un’interfaccia che ricordava un teletext di nuova generazione, ma con pagine web vere e proprie, giochi, aste, notizie, persino possibilità di commercio elettronico. In quelle schermate un po’ spartane ma futuristiche si poteva perfino continuare a vedere i programmi TV, grazie alla funzione “picture in picture”: una finestrella televisiva restava in sovrimpressione mentre si navigava. Per la fine degli anni ’90, vedere la TV in un riquadro mentre si sfogliavano pagine Internet sullo stesso schermo era qualcosa di clamorosamente avveniristico.

Freedomland non fu solo un prodotto tecnologico: fu un vero e proprio sogno imprenditoriale, con tanto di quotazione in Borsa, campagna pubblicitaria massiccia e – cosa che molti ricordano ancora – la promozione all’interno di “Passaparola”, il quiz preserale di Gerry Scotti su Canale 5. Il volto rassicurante di Scotti, il modem-decoder accanto al televisore, la promessa di “Internet in TV” senza PC: era la messa in scena perfetta di un futuro che sembrava alla portata di tutti. Eppure, nel giro di pochi anni, Freedomland sarebbe diventato un caso da manuale di bolla tecnologica, inchieste giudiziarie e risparmiatori bruciati.

Il contesto del 1999: quando il Web voleva entrare in salotto

Per capire perché Freedomland affascinò così tanto, bisogna tornare al 1999. La connettività domestica era ancora lenta e costosa, fatta di scatti telefonici e bollette salate. Il computer era percepito come uno strumento “da ufficio”, poco amichevole per chi era cresciuto con la TV generalista. L’intuizione fu semplice e, allo stesso tempo, formidabile: se le famiglie passano ore davanti al televisore, perché non trasformare proprio la TV nell’interfaccia di accesso a Internet?

Nel novembre del 1999 un articolo di settore annunciava con enfasi la nascita della “prima web TV italiana”: si spiegava che gli utenti potevano navigare su Internet dal televisore attraverso un decoder controllato da una tastiera a infrarossi e da uno speciale telecomando, con contenuti totalmente in italiano e un forte accento su giochi, aste online, viaggi, shopping e informazione. Il servizio si chiamava, appunto, Freedomland.

La struttura dell’offerta era calibrata su un pubblico che vedeva Internet come qualcosa di complicato. Per il primo anno era previsto un canone mensile che includeva il decoder, la connessione a Internet tramite Infostrada e l’accesso al portale Freedomland, inaccessibile da normali PC: un giardino chiuso, pensato per proteggere l’utente dalla “giungla” del Web tradizionale. Dal tredicesimo mese in poi la rata scendeva e il decoder diventava di proprietà dell’abbonato. In parallelo, la società Freedomland-ITN (Internet Television Network), fondata a Milano nell’aprile 1999, si strutturava per diventare un vero operatore di Internet TV. Il set-top box integrava modem, browser e software proprietario, collegandosi alla rete telefonica per trasferire dati e visualizzare i contenuti sullo schermo televisivo. L’ambizione dichiarata da Degiovanni era quella di assumere una posizione dominante nel nascente mercato europeo della “Internet television”, un po’ come America Online aveva fatto con Internet su PC negli Stati Uniti.

Come funzionava Freedomland?

Dal punto di vista dell’utente, Freedomland era pensato per essere il più possibile “televisivo”. Una volta installato il set-top box, l’interazione avveniva tramite due strumenti chiave: un telecomando e una tastiera a raggi infrarossi. Sul telecomando, oltre ai classici tasti di navigazione, c’era un tastierino numerico che permetteva di inserire indirizzi, testi e comandi, un po’ come si sarebbe fatto anni dopo con i telecomandi delle smart TV.

L’abbonamento mensile – attorno alle 30.000 lire – includeva il noleggio del decoder e una serie di servizi: posta elettronica, segreteria telefonica, possibilità di inviare fax direttamente dal televisore, navigazione sul portale e, soprattutto, la funzione “picture in picture”, che permetteva di continuare a vedere i programmi TV mentre si esploravano i contenuti online. Era un’alternativa magica, meravigliosa, nel piccolo nido domestico quotidiano anni ’90 che si affacciava al 2000. Un’epoca in cui, per la maggior parte degli italiani, Internet era sinonimo di PC.

Il portale Freedomland offriva, in lingua italiana, decine di migliaia di pagine organizzate per sezioni: aste online, oroscopo, assicurazioni, attualità, contenuti per bambini, borsa con analisi e trading, cinema e recensioni, enciclopedie tematiche, fitness, formazione a distanza, lavoro e affari, meteo, spettacoli e teatro, viaggi, sport e molto altro. Una vera piazza digitale, dove l’utente poteva informarsi, giocare, comprare biglietti o prenotare viaggi senza mai abbandonare lo schermo del televisore.

In più, grazie ad accordi con banche e istituti di credito, Freedomland cercò di trasformare la TV in uno sportello finanziario. La Banca Popolare di Milano lanciò una carta prepagata per il commercio elettronico, legata all’ecosistema Freedomland, pensata per abbattere la diffidenza degli italiani verso i pagamenti online. Successivamente, con il gruppo We@tBank, i clienti potevano sottoscrivere un abbonamento alla Internet TV Freedomland e, allo stesso tempo, gestire conto corrente e operazioni bancarie direttamente dalla TV. Non mancavano nemmeno accordi con Infostrada per integrare il traffico telefonico e l’abbonamento nel conto telefonico, né intese con realtà associative come la FACE (Federazione tra le Associazioni del Clero) per la distribuzione dei decoder in migliaia di parrocchie. Il modello era chiaro: trasformare la televisione in un terminale universale, capace di unire informazione, shopping, banca, intrattenimento e perfino servizi religiosi in un unico ambiente proprietario.

Gerry Scotti, “Passaparola” e l’immaginario dell’Internet facile

Sul fronte del marketing, Freedomland non badò a spese. Una parte consistente del budget venne destinata alla pubblicità televisiva, stimata in decine di miliardi di lire, accompagnata da una rete di vendita in network marketing che, nei momenti di massimo sviluppo, arrivò a contare decine di migliaia di incaricati. Nell’immaginario pop, però, il volto di Freedomland rimane quello di Gerry Scotti. In quegli anni “Passaparola” era uno dei programmi di punta della fascia preserale di Canale 5, con ascolti altissimi e un clima familiare. Proprio lì venne presentata al pubblico l’idea di Internet in TV: uno spot e citazioni nel corso del programma spiegavano che, grazie a un semplice modem collegato al televisore, chiunque poteva navigare senza PC, partecipare a giochi e interazioni e, in prospettiva, interagire con i quiz stessi. L’operazione era costruita per rassicurare. Freedomland non si rivolgeva al giovane smanettone, ma alla famiglia che magari non aveva mai acceso un computer. Il messaggio era: non serve imparare nulla di nuovo, basta il telecomando che hai in mano ogni sera. In un’Italia ancora sospettosa verso la tecnologia digitale, l’idea di “Internet che funziona come la TV” era un colpo di genio comunicativo.

Riascoltando oggi le ricostruzioni offerte dal podcast narrativo “Freedomland”, prodotto da Will Media, emerge con forza proprio questo contrasto: da un lato l’entusiasmo genuino di chi vedeva nell’Internet TV un’idea destinata a cambiare il modo di usare lo schermo domestico, dall’altro la fragilità di un modello che faceva affidamento su un pubblico non ancora pronto, su contenuti ancora poveri e su una struttura finanziaria estremamente esposta alla bolla del Nuovo Mercato.

Bolla in Borsa, decoder invenduti e un oblio velocissimo

Il salto di scala arrivò con la quotazione in Borsa. Freedomland venne portata sul Nuovo Mercato come una delle stelle della “new economy” italiana. Il titolo esordì con un prezzo iniziale di 105 euro ad azione, ma già nel primo giorno scese sotto quota 100, per poi perdere, nel giro di pochi mesi, circa il 90% del proprio valore. Quella che doveva essere la consacrazione del progetto si trasformò nel primo grande crollo simbolico del Nuovo Mercato italiano.

Col passare del tempo emerse il vero tallone d’Achille: il modello di business. Un’analisi del periodo sottolineava come i contenuti disponibili su Freedomland fossero pochi e, soprattutto, poco adatti a giustificare un’offerta di Internet via televisore, mentre il prezzo richiesto agli utenti restava elevato: circa 20.000 lire al mese, oltre a un costo dell’ordine di 400.000 lire per il set-top box, in un contesto in cui i PC iniziavano a scendere di prezzo e le soluzioni di accesso dial-up tradizionali diventavano sempre più diffuse. Nel frattempo, nei magazzini si accumulavano migliaia di decoder invenduti, per valori a bilancio stimati in svariate decine di miliardi di lire, mentre le spese promozionali continuavano a crescere. A fronte di perdite per circa 150 miliardi di lire, la società vantava ancora una cassa importante grazie ai capitali raccolti, ma il mercato cominciava a non credere più alla promessa dell’Internet TV. La vicenda si aggravò ulteriormente sul piano giudiziario. Secondo le ricostruzioni successive, Degiovanni venne accusato di aver presentato un prospetto informativo gonfiato in fase di quotazione, con numeri di abbonati superiori a quelli reali. Il procedimento si concluse con una condanna patteggiata a dieci mesi per falso prospetto, mentre circa trentamila risparmiatori si ritrovarono con titoli che avevano perso oltre il 90% del valore, per un danno complessivo stimato nell’ordine di centinaia di milioni di euro. Nonostante tentativi di rilancio, cambi di strategia e persino offerte di risarcimento volontario agli investitori da parte del fondatore, Freedomland finì per essere inglobata da altre realtà societarie e l’attività di Internet TV venne chiusa definitivamente nel 2005. Nel giro di pochi anni, il marchio scomparve dal mercato e rimase come un ricordo sfocato nella memoria di chi, a cavallo del 2000, aveva visto Gerry Scotti presentare quel misterioso “modem per la TV” negli intervalli pubblicitari.

Internet in TV… in toto?

Nonostante la comunicazione dell’epoca lasciasse intendere che Freedomland permettesse di “entrare in Internet” con la stessa libertà di un computer, la realtà d’uso era molto più sfumata. Sì, il decoder si collegava realmente alla rete tramite Infostrada e, dal portale principale, era possibile raggiungere alcuni siti esterni considerati fondamentali all’epoca, come i motori di ricerca o i portali generalisti che garantivano una struttura leggera e compatibile. Tuttavia il cuore dell’esperienza rimaneva il portale Freedomland stesso, progettato e impaginato specificamente per essere letto da un televisore e dal browser semplificato integrato nel set-top box. Il Web del 1999 era già più esigente di quanto il dispositivo potesse gestire: risoluzioni più alte dei 640×480 previsti dal decoder, colori complessi, pagine dinamiche, script non supportati, tecnologie come Java o Flash che dilagavano proprio in quegli anni e che il box non era in grado di interpretare. Così, se da un lato Freedomland prometteva l’oceano del Web, dall’altro offriva soprattutto una sua laguna sicura, stabile, controllata, dentro cui il decoder funzionava senza intoppi. Gli utenti scoprirono presto che la navigazione “esterna” era più una possibilità teorica che un’opportunità concreta: molti siti caricavano parzialmente, altri risultavano illeggibili, altri ancora non si aprivano affatto. Questo non toglie nulla al fascino iniziale dell’esperimento, ma restituisce la fotografia precisa di una tecnologia ibrida, sospesa tra ambizione e limite, tra modernità e compromesso. Freedomland fu davvero un’idea affascinante, ma rinchiusa in un contenitore tecnologico troppo ristretto per sostenere il suo stesso sogno.

Perché Freedomland era davvero un’antesignana delle smart TV

Oggi, guardando una qualsiasi smart TV, è quasi impossibile non pensare a Freedomland come a un prototipo concettuale. Navigazione Internet tramite telecomando, contenuti editoriali e commerciali integrati, picture-in-picture tra canale televisivo e interfaccia digitale, pagamenti e servizi bancari dal divano: tutto ciò che oggi diamo per scontato in un ambiente connesso, Freedomland cercò di proporlo in un contesto tecnologico ancora troppo acerbo. Il vero limite non fu tanto l’idea quanto il timing. Freedomland arrivò in un momento in cui la banda larga non esisteva, il Wi-Fi era sconosciuto e il concetto stesso di “piattaforma” digitale non aveva ancora preso forma. Per far funzionare quella visione servivano infrastrutture di rete più robuste, contenuti molto più ricchi e un ecosistema di partner disposto a investire sul lungo periodo. Al contrario, il progetto si ritrovò schiacciato tra le esigenze di una Borsa euforica, la difficoltà di educare il pubblico a un nuovo modo di usare la TV e l’arrivo sempre più pervasivo del PC connesso a Internet.

Con il senno di poi, Freedomland appare come una sorta di esperimento a metà tra pionierismo e over-promising: tecnicamente interessante, socialmente in anticipo, finanziariamente fragile. È uno di quei casi in cui la storia della tecnologia non procede in linea retta ma per tentativi, spesso dimenticati, che preparano il terreno a ciò che verrà dopo.

Nel ricordo degli appassionati di retro-tecnologia resta soprattutto l’immagine di quel decoder accanto al televisore, del telecomando-tastiera stretto in mano e della finestrella con il programma TV che continuava a scorrere mentre, un po’ goffamente, si provava a esplorare la “terra della libertà” promessa dal nome Freedomland.

Il paese dei balocchi di fine millennio

Ripercorrere oggi la storia di Freedomland significa tornare a un’Italia che viveva Internet come un territorio misterioso e scintillante, soprattutto agli occhi dei più giovani. Alla fine degli anni ’90 i giornalini e le riviste dell’epoca non si limitavano a raccontare tecnologia: Topolino segnalava siti curiosi per bambini, mentre pubblicazioni specializzate come Benkyo della Play Press – punto di riferimento per gli appassionati di animazione giapponese – introducevano i lettori a pagine web dedicate a Dragon Ball, Evangelion, Sailor Moon o alle novità che arrivavano dal Giappone con anni di anticipo rispetto alla TV italiana. Il Web, allora, non era un’abitudine né una comodità: era un’avventura.

I bambini e gli adolescenti non desideravano Internet per chattare o guardare video, ma per accedere a informazioni altrimenti introvabili. Nel 1999 Dragon Ball Z e GT non erano ancora passati su Italia 1: si trovavano solo in VHS da collezione, distribuite da DeAgostini. I Pokémon erano alle porte del loro debutto italiano. Bim Bum Bam e le reti Mediaset offrivano sprazzi di mondi lontani, ma erano proprio i siti – caricati lentamente, con un modem che occupava la linea telefonica – a custodire anticipazioni, rumor, screenshot, schede dei personaggi. Ogni click era una scoperta. Anche la TV entrava in questo clima di meraviglia, con programmi come Casa J su JTV, dove una giovane Giorgia Surina e gli altri conduttori presentava ai ragazzi i siti da non perdere, come se fosse una finestra segreta su un universo parallelo. I motori di ricerca dell’epoca – Virgilio, Arianna, Lycos – sembravano biblioteche infinite, capaci di raccontare tutto: dal nuovo film di Star Wars: La Minaccia Fantasma alle prime community dedicate ai videogiochi.

E mentre l’Italia aspettava il duemila tra entusiasmo e timori apocalittici legati alle profezie di Nostradamus e al Millennium Bug, ogni famiglia percepiva Internet come una soglia verso il futuro. In quell’atmosfera sospesa, Freedomland sembrò davvero l’oggetto perfetto al momento perfetto: un ponte tra la televisione tradizionale e il Web delle meraviglie, abbastanza semplice da conquistare gli adulti e abbastanza futuristico da far sognare i ragazzi. Riuniva sul televisore tutto ciò che stava rendendo il Web affascinante: notizie, giochi, curiosità, strumenti interattivi e perfino un modo per continuare a guardare la TV mentre si navigava.

Ma è proprio in questa tensione tra sogno e realtà che si consuma il destino di questo prodotto. Era innovativo, sì, ma fragile; visionario, ma privo delle infrastrutture necessarie per sostenerlo; desiderato, ma troppo avanti per un Paese ancora legato al modem 56k e a un’idea di Internet come mondo da esplorare con un computer e un modem collegato a un telefono. Per questo, nonostante l’entusiasmo che accese nei suoi primi mesi di vita, Freedomland rimase un’occasione mancata: un lampo di futuro apparso in anticipo, capace di affascinare un’intera generazione ma destinato a spegnersi prima che quella visione potesse diventare realtà.

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