Il ruolo dei docenti nella scuola italiana: un lavoro o una missione?

In Italia il lavoro dei docenti è considerato una missione più che una professione. Da dove nasce questa concezione? È davvero così?

In Italia l’insegnamento vive da decenni dentro una contraddizione mai davvero risolta. Da un lato è una professione complessa, che richiede anni di studio universitario, abilitazioni, concorsi pubblici, aggiornamento continuo e responsabilità enormi. Dall’altro, nel discorso pubblico, viene spesso raccontata come una missione, una vocazione quasi sacerdotale. Un’idea affascinante, certo, ma anche pericolosa. Perché quando un lavoro diventa “missione”, parlare di stipendio, diritti e riconoscimento economico rischia di sembrare una bestemmia laica.

Il paradosso culturale della scuola italiana

Questo modo di pensare non nasce dal nulla. Affonda le radici in una tradizione culturale tutta italiana, che ha costruito nel tempo una figura idealizzata del maestro. Basti pensare alla letteratura scolastica ottocentesca, come Cuore di Edmondo De Amicis: il maestro Perboni è un uomo solo, austero, segnato dalla vita, che trova nei suoi alunni l’unica ragione di esistenza. I ragazzi non sono semplicemente studenti, ma figli, amici, senso ultimo della sua quotidianità. Un’immagine potente, nobile, ma anche profondamente romantica e lontana dalla realtà di una scuola moderna e complessa.

Da qui nasce l’idea, ancora oggi molto diffusa, che il buon insegnante debba sacrificarsi. Che debba “fare di più” senza chiedere nulla in cambio. Che debba accettare incarichi aggiuntivi, responsabilità extra, burocrazia crescente e retribuzioni modeste perché, in fondo, non sta lavorando: sta compiendo una missione.

Quando la “missione” diventa un alibi

Il problema è che questa retorica, talvolta, viene usata in malafede. Parlare di missione può diventare un comodo alibi per giustificare stipendi bassi e compensi simbolici. Il docente riceve uno stipendio statale, certo, ma per molte attività aggiuntive deve fare affidamento al FIS, il Fondo per l’Istituzione Scolastica, che è per sua natura limitato. Non è colpa delle singole scuole, né tantomeno dei dirigenti che fanno salti mortali per garantire una scuola dignitosa al personale scolastico e agli studenti, ma di un sistema che riconosce economicamente solo in minima parte il lavoro extra richiesto.

Il messaggio implicito è chiaro: se ami davvero il tuo lavoro, non dovresti badare ai soldi. Un ragionamento che difficilmente verrebbe applicato a un medico, a un ingegnere o a un avvocato. Eppure, come un medico impreparato può danneggiare gravemente un paziente, un insegnante inadeguato può “uccidere” psicologicamente uno studente, minando autostima, motivazione e futuro.

Passione sì, tossicità no

L’insegnamento richiede passione, dedizione, amore per i ragazzi. Su questo non ci sono dubbi. È un lavoro umano, delicato, in cui la competenza tecnica deve andare di pari passo con la sensibilità. Ma ridurlo a una missione è ingiusto e tossico. Significa trasformare una professione seria in una sorta di videogame o manga fantasy, dove il docente è un paladino chiamato a completare infinite “quest”, senza mai chiedersi se abbia gli strumenti, il tempo e il riconoscimento per farlo.

La vocazione, nel senso profondo del termine, appartiene alla sfera religiosa. È una chiamata che viene da Dio. L’insegnamento, invece, è un lavoro laico. Un lavoro fondamentale per la società, che deve essere svolto da professionisti preparati, scrupolosi e umani. Dall’asilo nido alla scuola superiore.

L’insegnamento può (anzi, deve) essere vissuto con passione, ma bisogna riconoscerlo come una professione a tutti gli effetti. Chiedere dignità salariale, rispetto e condizioni di lavoro adeguate non significa tradire i ragazzi. Al contrario: significa garantire loro insegnanti migliori, più sereni, più motivati e più preparati. Perché una scuola che vive di missionari poveri non è una scuola giusta. È solo una scuola che finge di essere nobile mentre scarica il peso del sistema sulle spalle dei suoi docenti.

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