Il 25 novembre non è una ricorrenza messa in calendario per riempire palinsesti e bacheche social. È la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza sulle donne, istituita dalle Nazioni Unite nel 1999, che prende le mosse dall’assassinio delle sorelle Mirabal nella Repubblica Dominicana nel 1960. Una data che nasce da un femminicidio politico e familiare, e che oggi in Italia si sovrappone a una cronaca quotidiana fatta di donne uccise in casa, nell’auto, in campagna, in un parcheggio, quasi sempre da chi diceva di amarle. Nel nostro Paese, i numeri parlano con una chiarezza difficilmente equivocabile. Secondo gli ultimi dati dell’Istat, nel 2024 ci sono stati 327 omicidi complessivi, di cui 116 vittime donne.
Ma ciò che colpisce non è solo il totale, bensì il contesto: i report elaborati dal Servizio Analisi Criminale del Ministero dell’Interno e presentati l’8 marzo 2025 mostrano che, nel 2024, le donne uccise sono state 113, 99 delle quali in ambito familiare o affettivo, e ben 61 per mano del partner o dell’ex partner. Dietro queste cifre, che ogni anno proviamo a “metabolizzare” con grafici e conferenze stampa, c’è una costante che non cambia: la violenza maschile contro le donne avviene soprattutto dentro le relazioni, non per strada. E mentre la politica alterna annunci e piani straordinari, la cronaca continua a restituire casi che diventano simbolo, emblema, detonatori emotivi. In questo dossier proviamo a tenere insieme memoria e analisi: la storia di Sara Di Pietrantonio, di Noemi Durini, di Giulia Cecchettin e dei numeri più recenti ci dicono che il femminicidio non è mai un raptus, non è mai una fatalità, non è mai un “troppo amore”. È, ancora oggi, un delitto di controllo e di potere.
Sara, Noemi, Giulia: tre nomi che raccontano lo stesso copione
Quando si parla di violenza sulle donne in Italia, alcune vicende sono diventate spartiacque. Non perché “più importanti” delle altre – ogni donna uccisa meriterebbe la stessa attenzione – ma perché hanno costretto l’opinione pubblica a guardare in faccia il fenomeno.
Il caso di Melania Rea, uccisa il 18 aprile 2011 nel bosco di Ripe di Civitella, è uno dei più emblematici della violenza consumata all’interno di una relazione solo apparentemente stabile. Melania, giovane mamma di Somma Vesuviana, scompare durante un’uscita familiare e viene ritrovata due giorni dopo senza vita, con evidenti segni di aggressione. Le indagini porteranno alla condanna del marito, Salvatore Parolisi, che fino all’ultimo aveva interpretato il ruolo del marito preoccupato. La sua doppia vita, le menzogne, i tradimenti e la ricostruzione minuziosa di quella giornata hanno mostrato come la violenza possa annidarsi anche dietro l’immagine perfetta di una famiglia normale. Il femminicidio di Melania ha costretto l’Italia a interrogarsi sulla maschera della rispettabilità e sulla gestione dell’ossessione affettiva.
Il 29 maggio 2016, a Roma, viene uccisa Sara Di Pietrantonio. Ha 22 anni, studia Economia a Roma Tre, ha appena lasciato un ragazzo di 27 anni, geloso e ossessivo, Vincenzo Paduano. Quella notte l’uomo la pedina, le sperona l’auto su via della Magliana, la costringe a fermarsi, la aggredisce, cosparge di benzina lei e la macchina. Sara tenta di fuggire, chiede aiuto agli automobilisti che passano, ma nessuno si ferma per soccorrerla. Viene raggiunta, sopraffatta e bruciata viva. Il processo si concluderà, dopo passaggi complessi tra appello e Cassazione, con la conferma dell’ergastolo per Paduano e con il riconoscimento delle aggravanti di premeditazione, futili motivi, minorata difesa, oltre ai reati di stalking e distruzione di cadavere. Ma oltre alla sentenza, resta un’immagine che ancora brucia: quella di una ragazza che corre nella notte chiedendo aiuto, senza trovarlo. La violenza di un singolo si somma all’indifferenza collettiva.
Poco più di un anno dopo, nel settembre 2017, un’altra storia scuote l’Italia: quella di Noemi Durini, 16 anni, di Specchia, in provincia di Lecce. Di lei si perdono le tracce il 3 settembre. Dieci giorni dopo, il fidanzato – all’epoca minorenne – confessa di averla uccisa e indica il luogo in cui ha nascosto il corpo, sotto un cumulo di pietre in campagna, nei pressi di Castrignano del Capo.
Le cronache raccontano di una relazione segnata da conflitti, tensioni con le famiglie, gelosie. Il ragazzo viene condannato a 18 anni di reclusione per omicidio volontario aggravato e occultamento di cadavere; la condanna diventa definitiva nel 2019, quando rinuncia al ricorso in Cassazione. Intorno al caso, si consuma anche un ulteriore livello di violenza simbolica: alcune dichiarazioni dei genitori del ragazzo, ritenute diffamatorie nei confronti di Noemi, porteranno a un processo e a una condanna per diffamazione nei confronti della memoria della vittima. Con Sara e Noemi, la parola “femminicidio” entra stabilmente nel lessico della cronaca italiana, ma è con l’omicidio di Giulia Cecchettin che il dibattito compie un salto di consapevolezza. Giulia ha 22 anni, è una studentessa di Ingegneria biomedica all’Università di Padova.
Nel maggio 2023, l’omicidio di Giulia Tramontano, 29 anni, incinta di sette mesi, ha scioccato il Paese per la brutalità e per la premeditazione. L’assassino è il suo compagno, Alessandro Impagnatiello, che conduceva da tempo una doppia vita e temeva che la gravidanza e la relazione parallela che aveva intrecciato potessero far crollare il castello di bugie costruito attorno a sé. Giulia viene colpita ripetutamente nella casa di Senago e il suo corpo viene abbandonato poco dopo. Nei giorni successivi, Impagnatiello partecipa persino alle ricerche, mostrando un sangue freddo che ha lasciato sgomenti investigatori e opinione pubblica. La vicenda ha evidenziato un tratto ricorrente della violenza di genere: l’incapacità di molti uomini di accettare che una donna eserciti libertà, autonomia e maternità.
L’11 novembre 2023 esce con l’ex fidanzato, Filippo Turetta, con cui la relazione è finita da poco. Non rientra. Dopo giorni di ricerche, il suo corpo viene ritrovato in un anfratto roccioso vicino a un invaso nel Bellunese, nascosto in sacchi neri. È stata colpita da decine di coltellate alla testa e al collo. Turetta fugge in auto e viene arrestato in Germania; estradato in Italia, finirà a processo e verrà condannato all’ergastolo, con una sentenza che diventa definitiva dopo la rinuncia della Procura generale all’impugnazione.
Ma, ancora una volta, ciò che resta non è solo il dispositivo della sentenza. A restare sono la voce del padre Gino, che davanti alla commissione parlamentare d’inchiesta sul femminicidio insiste sul fatto che l’unica risposta sistemica possibile è l’educazione, e le parole della sorella Elena, che in una lettera al Corriere della Sera descrive gli assassini non come “mostri”, ma come prodotti di una cultura che normalizza il controllo, la possessività, la svalutazione del consenso. Con Giulia, le piazze si riempiono. Il movimento Non Una Di Meno, i centri antiviolenza, migliaia di persone scendono in strada. Nasce una fondazione che porta il suo nome e che lavora su percorsi educativi e progetti per combattere la violenza maschile. È come se, improvvisamente, il Paese si accorgesse che quella che era percepita come una sequenza di casi isolati è in realtà una strage seriale, annunciata, strutturale.
Pamela Genini ha 29 anni ed è una modella e imprenditrice milanese originaria della Val d’Imagna, in provincia di Bergamo. Il 14 ottobre 2025, viene uccisa nel suo appartamento a Milano. Il suo ex-compagno, Gianluca Soncin, 52 anni, avrebbe utilizzato una chiave copiata per entrare nell’abitazione e l’avrebbe accoltellata almeno 24 volte sul terrazzo. Le indagini rivelano un lungo periodo di stalking, minacce e violenze precedenti: Pamela aveva cercato di lasciare la relazione, aveva ricevuto aggressioni e aveva denunciato un’aggressione subìta all’isola d’Elba, mentre la procura di Bergamo indaga sul ritardo nell’attivazione dei codici di protezione. La vicenda di Pamela Genini rimette drammaticamente al centro il tema della prevenzione: l’episodio estremo e, al contempo, il percorso di violenza e controllo che lo ha preceduto, troppo spesso ignorato o sottovalutato.
I numeri: una donna uccisa ogni tre giorni, quasi sempre in casa
Se spegniamo per un momento il frastuono dei talk show e guardiamo solo ai dati, l’immagine è nitida. Il report del Ministero dell’Interno dedicato alla violenza di genere e presentato il 14 marzo 2025 mostra un quadro apparentemente “in miglioramento”: nel 2024 le donne uccise sono 113, in leggero calo rispetto all’anno precedente.
Ma dietro questo calo si nasconde un elemento che non cambia: i delitti comunque avvengono, e questo è terribile, e nove omicidi su dieci avvengono dentro l’ambito familiare o affettivo. In oltre la metà dei casi l’autore è il partner o l’ex partner. Istat conferma che le donne rappresentano una minoranza delle vittime di omicidio nel complesso, ma sono quelle che pagano il prezzo più alto dentro le mura domestiche. Nel 2024, su 327 omicidi, 116 vittime sono donne, con un rischio che aumenta con l’età e con la fragilità economica e relazionale.
Guardando ai primi dati del 2025, il quadro resta drammatico. Le rilevazioni del Viminale e le analisi pubblicate da diverse testate nazionali evidenziano un calo degli omicidi complessivi, ma confermano che in Italia muore ancora una donna ogni tre giorni, spesso per mano di un uomo che appartiene alla sua cerchia affettiva: marito, convivente, ex, partner occasionale che non accetta la fine della relazione o l’autonomia della vittima. Parallelamente, un recente focus dell’Istat sulla violenza dentro e fuori la famiglia ricorda che quasi un terzo delle donne tra i 16 e i 75 anni ha subito nel corso della vita almeno una forma di violenza fisica o sessuale; in moltissimi casi l’autore è un partner o un ex. Questo significa che il femminicidio è la punta dell’iceberg di un continuum di abusi che va dagli insulti alle minacce, dallo stalking alla violenza economica, fino alle aggressioni fisiche e allo stupro.
C’è poi un altro dato che interroga la narrazione pubblica: nel 2024 e 2025 aumentano le denunce per maltrattamenti, stalking, violenza sessuale. La Polizia di Stato e gli analisti della violenza di genere sottolineano come questa crescita sia in parte il segno di una maggiore emersione del fenomeno, non necessariamente di un aumento dei casi. Le donne, cioè, non tacciono più come prima; ma spesso le loro richieste di aiuto arrivano comunque troppo tardi, o non vengono prese sul serio.
Dalla cultura del possesso alla prevenzione possibile
Osservando i casi precedentemente analizzati e le altre decine di nomi che non diventano mai titoli di apertura, emerge uno schema disturbante nella sua ripetitività. C’è quasi sempre una relazione che si incrina, una ragazza che vuole lasciare, prendere le distanze, ricostruire la propria vita. E c’è un uomo che percepisce quella scelta come un affronto personale, una perdita di potere, una ferita narcisistica.
Spesso, prima del delitto, ci sono segnali: messaggi ossessivi, appostamenti, controllo del telefono, svalutazioni, minacce velate. A volte denunce, ammonimenti, richieste di aiuto alle forze dell’ordine, ai servizi sociali, alla scuola. Non sempre, però, questi segnali vengono letti per ciò che sono: campanelli d’allarme di un possibile femminicidio.
Una parte del problema riguarda la cultura, prima ancora delle leggi. Studi e articoli di approfondimento parlano di “himpathy”, una tendenza sociale a provare empatia per gli autori maschi di violenza, minimizzandone la responsabilità e spostando l’attenzione sulle difficoltà, sulla gelosia, sulla sofferenza emotiva dell’uomo. Lo vediamo spesso quando, dopo un femminicidio, i necrologi mediatici insistono su frasi come “era un bravo ragazzo”, “non aveva mai dato problemi”, “era disperato perché lei lo aveva lasciato”.
In questo racconto, la donna finisce per sparire due volte: prima come persona, poi come soggetto morale. La sua volontà – lasciare una relazione, rifiutare un rapporto, dire no – viene retrocessa a fattore scatenante del dramma, più che riconosciuta come diritto inalienabile. Il femminicidio, in questa prospettiva, non è il frutto di un impeto improvviso, ma l’atto finale di un’educazione sbagliata al possesso.
Sul fronte normativo, in Italia esistono strumenti importanti: il “Codice rosso” che velocizza le procedure per i reati di violenza domestica e di genere; le misure di allontanamento d’urgenza; gli ammonimenti del questore; i braccialetti elettronici; le misure cautelari più severe. E negli ultimi anni il Viminale ha segnalato un aumento degli ammonimenti e delle misure di prevenzione adottate dalle questure. Tuttavia, se ci fermassimo alle leggi, mancheremmo il bersaglio. La stessa voce dei familiari delle vittime – come Gino ed Elena Cecchettin – converge su un punto: senza un massiccio investimento nell’educazione affettiva e al consenso, soprattutto tra i ragazzi, nessuna riforma penale potrà bastare. Educazione significa insegnare già alle scuole medie che il “no” non è una provocazione ma un confine, che la gelosia non è una prova d’amore, che il controllo del cellulare non è un gesto romantico ma una violenza.
Significa lavorare con i maschi sul tema della fragilità e della frustrazione, sul rifiuto come esperienza che non autorizza la vendetta. Significa, infine, finanziare seriamente i centri antiviolenza, i percorsi per uomini maltrattanti, le case rifugio, invece di relegarli al ruolo di servizi “accessori” che vivono di bandi precari. Come osservatore, è difficile non provare un senso di straniamento davanti al ciclo che si ripete: ogni nuovo femminicidio “mediatico” apre un momentaneo spazio di indignazione, qualche settimana di dichiarazioni e tavoli istituzionali, poi l’attenzione scivola altrove finché un’altra storia – un altro corpo – non ci costringe a ricominciare. Il rischio è trasformare anche il dolore in consumo, in una serie di casi Netflix da commentare e dimenticare.
Eppure, qualcosa cambia quando i nomi delle vittime vengono ricordati non solo il 25 novembre, ma nelle scelte quotidiane di chi educa, amministra, giudica, racconta. Cambia quando un insegnante decide di dedicare un’ora di lezione a discutere di relazioni sane, quando un giornalista smette di usare espressioni come “delitto passionale”, quando un amico interviene davanti a una battuta sessista invece di ridere e basta.
Questo non basterà, da solo, a fermare gli uomini che oggi stanno maturando un progetto di morte contro la propria compagna o ex compagna. Ma può creare, nel tempo, un clima culturale meno favorevole alla violenza, meno indulgente verso il controllo, più schierato dalla parte di chi chiede aiuto.
Il 25 novembre, allora, non è una commemorazione, ma un promemoria: dietro le sagome rosse esposte nelle piazze ci sono vite interrotte, sogni universitari, lavori precari, litigi in famiglia, messaggi non letti, tesi da discutere. Ci sono Melania, Sara, Noemi, le due Giulie, Pamela e le tante altre le cui storie non sono di certo meno importanti.
Sta a noi decidere se lasciarle inchiodate al ruolo di vittime di cronaca o se trasformare le loro storie in un impegno quotidiano, collettivo, perché la frase “una donna uccisa ogni tre giorni” smetta finalmente di essere una statistica italiana e torni ad essere, com’è giusto che sia, un’impossibilità.


Famiglia nel bosco: la proposta del sindaco di Palmoli
Madre mummificata, il figlio si veste da donna per la pensione