Nel bagno degli studenti del terzo piano del liceo Carducci di Roma, in via Asmara, qualcuno ha scritto sul muro una nuova “lista degli stupri”, emulando quanto avvenuto nei giorni scorsi al liceo Giulio Cesare. Accanto alla scritta, sono comparsi i nomi di due studentesse, poi cancellati a pennarello, secondo quanto ricostruito dalle cronache locali e dai collettivi studenteschi. Il gesto, solo in apparenza effimero e relegato a un bagno scolastico, ha spalancato ancora una volta il vaso di Pandora della violenza simbolica contro le ragazze, del sessismo normalizzato e di una cultura che continua ad ammiccare alla sopraffazione come gioco, come scherzo, come linguaggio di gruppo. Il punto, sottolineano le studentesse, non è la bomboletta o il pennarello usato sul muro: è l’idea di poter usare il corpo delle compagne come bersaglio, come minaccia, come moneta di scambio nel conflitto tra pari.
Se al Giulio Cesare si è parlato di un elenco di nove nomi, in buona parte ragazze impegnate nei temi di genere e nella rappresentanza studentesca, al Carducci l’emulazione è arrivata quasi come un copione già scritto: stessa dinamica, stesso luogo (il bagno maschile), stessa estetica della lista con i nomi. A cambiare è solo il numero delle vittime designate, due, e il gesto successivo di cancellare i nomi: un tentativo tardivo di riparare, forse, più per paura delle conseguenze che per reale presa di coscienza. Ma la cancellazione non rimuove la violenza: resta la traccia, resta il messaggio, resta quel clima di ostilità che molte studentesse descrivono come costante e logorante.
Dal Giulio Cesare al Carducci: il filo rosso della violenza simbolica
Per capire perché la nuova lista del Carducci faccia così paura, bisogna tornare a pochi giorni fa, quando nel bagno dei ragazzi del liceo classico Giulio Cesare è apparsa la prima elenco incriminato, con una decina di nomi scritti in rosso sul muro, accompagnati dalla definizione esplicita di “lista stupri”. Non si trattava di una scritta generica, ma di scelte mirate: attiviste femministe, ragazze schierate contro la violenza sulle donne, studenti e studentesse esposti in prima linea nelle battaglie civili. Da lì sono partite le denunce, l’intervento della dirigente scolastica, le prese di posizione pubbliche delle ragazze coinvolte e delle loro famiglie, fino all’apertura, da parte della Procura di Roma, di un fascicolo per istigazione a delinquere finalizzata alla violenza sessuale. Nel giro di pochissimi giorni, il copione si è ripetuto altrove: un caso a Lucca, in un liceo scientifico, con un elenco simile apparso nei bagni della scuola, e ora il Carducci di Roma, nel quartiere Africano, dove nel bagno degli studenti del terzo piano è comparsa un’altra “lista stupri” con due nomi, in seguito cancellati dagli stessi autori, secondo quanto riportato da più testate. Questo terzo episodio, così ravvicinato agli altri, smonta definitivamente la narrazione dello scherzo isolato e richiama invece la logica dell’emulazione: si prende un gesto violento, lo si trasforma in meme, lo si replica per sentirsi parte di un’onda, di un gioco sporco che però ha un fortissimo impatto reale sulle vite delle ragazze nominate.
A scuotere l’opinione pubblica non è solo la ripetitività del gesto, ma soprattutto il contesto in cui avviene: la scuola, luogo che per definizione dovrebbe essere presidio di sicurezza, educazione e rispetto. Quando la minaccia di stupro diventa una scritta abituale sui muri dei licei, la scuola smette di essere rifugio e diventa teatro della stessa violenza culturale che dice di voler combattere.
A denunciare con più forza la gravità di quanto accaduto al Carducci sono stati la Rete degli studenti medi del Lazio e il collettivo studentesco interno, Asmara. In una nota, quest’ultimo parla espressamente di emulazione della lista del Giulio Cesare e condanna il gesto come atto di violenza simbolica contro le studentesse. Gli studenti sottolineano che “nel bagno degli uomini del terzo piano del plesso di via Asmara del Liceo Carducci è apparsa l’emulazione della ‘lista stupri’ del liceo Giulio Cesare”, precisando che “la scritta riportava i nomi di due ragazze, successivamente cancellati dagli stessi autori”. Le parole più nette arrivano però da una delle frasi destinate a restare come manifesto di questa protesta: gli studenti del collettivo Asmara dichiarano che “non sono ragazzate, ma sintomi della società patriarcale … in cui i cosiddetti bravi ragazzi nascono, crescono e su cui si adagiano”. È una frase che rovescia l’immagine rassicurante del giovane di buona famiglia, alunno modello, dedito allo studio e/o abile in un’attività sportiva, e mette a nudo un meccanismo culturale: la violenza di genere non è un’anomalia di pochi mostri, ma la conseguenza di una socializzazione in cui il corpo delle ragazze è continuamente oggettivato, commentato, classificato, messo in graduatoria, e ora addirittura elencato come bersaglio di una violenza sessuale.
Le reazioni istituzionali, come già accaduto per il Giulio Cesare, oscillano tra la condanna ferma e il richiamo alle sanzioni disciplinari. Il ministro dell’Istruzione ha parlato di episodi “gravissimi” che non possono restare impuniti, mentre la Procura – già investita del caso del primo liceo romano – sta accertando se vi siano margini per indagini anche sul nuovo episodio, pur tenendo conto dell’età degli autori e delle dinamiche tipicamente minorili. Ma per studentesse e studenti, il cuore del problema non si esaurisce nella ricerca dei colpevoli da punire: riguarda una cultura diffusa, fatta di linguaggi violentissimi nella quotidianità.
La coordinatrice della Rete degli studenti medi del Lazio, Bianca Piergentili, ha messo in discussione la risposta esclusivamente repressiva: secondo quanto riportato dalla stampa specializzata, ha sottolineato che non basta “la caccia all’uomo” e che “sono tutti colpevoli, in primo luogo le istituzioni che ci abbandonano”. È un’accusa diretta alle politiche educative, ma anche alla sottovalutazione per anni di episodi meno eclatanti: battute, insulti, meme sessisti nelle chat di classe, voti ai corpi delle ragazze condivisi sui gruppi WhatsApp, foto rubate, commenti che normalizzano la violenza di genere. La “lista degli stupri” non sarebbe, in questa prospettiva, altro che l’ultimo step di una scala già lunga, un becero e volgare “salto di qualità” nella stessa direzione.
Le studentesse non parlano di “goliardia”, non minimizzano, non accettano la retorica del gesto infantile: rivendicano invece il diritto a essere prese sul serio, a vedere riconosciuta la propria paura e la propria indignazione come emozioni politiche, come motore di una richiesta di cambiamento strutturale. Chiedono sportelli di ascolto, formazione obbligatoria per docenti e personale, percorsi di educazione all’affettività e al consenso che non si risolvano in una conferenza una tantum, ma diventino parte integrante del curricolo scolastico.
Il Carducci, in questo senso, diventa il luogo simbolico di una sfida più ampia. Lì si intrecciano almeno tre piani: la responsabilità individuale di chi ha scritto la lista e si è sentito legittimato a farlo; la responsabilità collettiva del gruppo classe e della comunità studentesca che deve decidere se restare in silenzio o esporsi; la responsabilità istituzionale della scuola e delle autorità che devono andare oltre il comunicato di condanna e trasformare l’indignazione in azioni concrete. Se dopo il clamore mediatico tutto si risolvesse in qualche sospensione e in un paio di titoli indignati, il messaggio lanciato alle vittime sarebbe devastante: nonostante tutto, siete sole.
Nel frattempo, la vicenda si inserisce in un momento delicatissimo per il dibattito pubblico italiano sulla violenza di genere, segnato da femminicidi che hanno scosso l’opinione pubblica e da mobilitazioni di piazza guidate in larga parte da ragazze poco più grandi delle studentesse del Carducci. Le “liste”, scritte a pennarello sui muri dei bagni, sembrano quasi un tentativo di zittire, ridicolizzare o punire questa nuova generazione di giovani donne che rivendicano diritti e spazio. È come se a ogni passo avanti nella consapevolezza seguisse un contraccolpo altrettanto violento, che torna a mettere il corpo femminile al centro non come soggetto, ma come oggetto di minaccia.


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