Quel popolo degli Ipogei: scendere nel buio per cercare la luce

QUEL POPOLO DEGLI IPOGEI: SCENDERE NEL BUIO PER CERCARE LA LUCE.

Sotto la crosta arida del Tavoliere pugliese, a pochi metri dalla superficie, si nasconde un mondo antico che sembra respirare ancora.

È il regno del popolo degli ipogei, comunità vissute tra il 1700 e il 1500 a.C. (Bronzo medio), che non si accontentavano di scavare fosse per i propri defunti, ma plasmarono veri e propri templi sotterranei. Qui, nelle viscere della Daunia, la morte non era mai soltanto morte: era rito, rinascita, celebrazione collettiva.

Col passare dei millenni l’utilizzo di questi spazi non si è mai interrotto, portando gli ipogei a diventare successivamente anche casa, rifugio per animali o rimessa per gli attrezzi. Ma la genesi di questi luoghi richiama la ricerca del sacro.

Gli scavi di Terra di Corte e di Madonna di Loreto a Trinitapoli, ad esempio, hanno restituito ambienti grandiosi, con rampe scoperte che scendevano come passaggi iniziatici verso un buio rituale. Corridoi stretti, volte a cupoletta, vestiboli con segni di pali lignei che forse reggevano tende sacre, e infine la grande sala: nicchie alle pareti, un’apertura centrale per il fumo dei focolari, piccoli cerchi di pietre accesi di fuoco e di vita.

In quei focolari ardevano spighe di farro carbonizzate, offerte alla terra come semi di immortalità. Lungo le pareti venivano deposti palchi di cervo, trofei di caccia trasformati in emblemi sacri, e sugli altari improvvisati giacevano ossa di cinghiali, di maialini da latte, di cervi giovani, sacrificati perché il loro sangue potesse rinsaldare il patto con le divinità invisibili.

Non mancavano oggetti di bronzo: crogioli, spilloni, frammenti metallici, tracce di una metallurgia che, forse, partecipava anch’essa al rito.

Gli ipogei erano luoghi vivi, attraversati da voci, canti, odori di fumo e di carne bruciata. E quando il loro tempo finiva, non venivano mai lasciati al caso: venivano sigillati con gesti solenni, colmati di terra e di massi, coperti da tumuli bassi, segnati da una pietra verticale, il ‘sema’ (segnacolo), che indicava la loro sacralità.

Dentro, ossa rotte, stoviglie frantumate, ciotole usate per libagioni, a volte persino resti umani disarticolati. In un ipogeo di Terra di Corte è stato trovato un cranio rovesciato al centro di un cerchio di pietre, come un monito o un messaggio cifrato lasciato agli dei.

Il sotterraneo era specchio del mondo: un grembo in cui la comunità entrava per dialogare con la morte e da cui usciva per tornare a vivere. Con il passare dei secoli, quella stessa roccia continuò a custodire segreti.

Nella piana di Siponto, in epoche storiche successive, gli uomini impararono a scendere di nuovo nel grembo della terra, ma questa volta per incontrare un Dio diverso. Là dove il mare si stende accanto a Manfredonia, le comunità cristiane dei secoli IV e V scavarono i loro ipogei, trasformando antiche cave e sepolcreti romani in catacombe e chiese sotterranee. L’eco dei riti pagani si mescolava ora alle croci graffite sulle pareti, ai loculi dei bambini, alle nicchie per le lampade.

Gli ipogei Capparelli, tra i più vasti della necropoli paleocristiana della Daunia, conservano ancora oggi i loro ambulacri sorretti da pilastri, gli arcosoli disposti con ordine, le tombe multiple, le piccole croci incise nella pietra viva. Sono luoghi segnati da una lunga storia di usi e abusi: per secoli furono cava di tufo, rifugio per animali, depositi agricoli, persino discariche.

Ma se ci si ferma un istante, si può ancora immaginare la luce tremolante delle lucerne, le processioni di fedeli che portavano i corpi dei loro cari giù per le scale, il silenzio interrotto solo da preghiere sussurrate.

Nella pineta di Siponto, nel 1937, vennero scoperti due ipogei intitolati alla famiglia Scoppa. Il primo custodiva mosaici policromi del V e VI secolo, colonne e loculi, dedicati ai santi Stefano e Agata. La scala d’accesso introduceva a un luogo che era insieme sepolcro e chiesa, con arcosoli che accoglievano più sepolture, testimonianza di una comunità che celebrava i suoi morti nel cuore della terra.

Il secondo, più piccolo, offriva venti loculi e due arcosoli, un microcosmo funebre inciso nel tufo. Poco lontano, gli ipogei Minonno, scavati anch’essi per accogliere defunti, conobbero destini meno nobili, usati come cave e depositi.

Sotto la moderna chiesa di Santa Maria Regina si trovano altri ipogei, datati tra IV e X secolo. Sessantun loculi, alcuni lunghi fino a un metro e settanta, chiusi da tegoloni con tracce di calcina. I resti umani rinvenuti – adulti e bambini – raccontano di una città che affidava al sottosuolo la memoria della propria comunità. La struttura con ambulacro a croce greca, arcosoli polisomi contrapposti, passaggi ricavati tagliando nuove aperture nella roccia, mostra come la fede cristiana abbia saputo riadattare e far crescere questi spazi nel corso dei secoli.

Eppure, anche a Siponto, la vita degli ipogei non è stata infinita. Con il declino della città e il trasferimento della popolazione a Manfredonia nel XIII secolo, il complesso sotterraneo perse la sua funzione primaria. L’acqua stagnante, la malaria, i cambiamenti politici spinsero gli uomini altrove. Quello che restava fu inghiottito dall’incuria, dalla polvere, dall’uso improprio.

Ma chi scende oggi in quei corridoi può ancora sentire un filo che lega il rito dei Dauni con il canto dei cristiani: un filo che passa per la pietra, per la terra scavata e per la necessità di trasformare il buio in sacro.

È la continuità della memoria che rende questi ipogei così affascinanti: dal cranio rovesciato nel Bronzo Medio al mosaico cristiano sotto la pineta, dalle ossa dei maialini da latte sacrificate agli dèi arcaici ai loculi dei bambini affidati al Dio della resurrezione. Ogni epoca ha scavato nel ventre della terra la propria identità, la propria speranza di oltrepassare la morte. E mentre sopra cambiavano città, popoli, religioni, sotto restava un unico gesto: scendere nel buio per cercare la luce.

Archivio Giovanni BARRELLA.

Alcune foto degli ipogei Capparelli provengono dall’articolo di Gianluigi Vezoli sulla pagina Salentoacolory.it.

Fonti:

– “Il popolo degli ipogei”, Archeologia Viva n. 82 – luglio/agosto 2000 pp. 32-47, a cura di Bert d’Arragon.

– Catalogo Generale dei Beni Culturali (foto).

– “Gli ipogei paleocristiani di Siponto”, C. Serricchio, in Puglia paleocristiana III, 1979, pp. 377-378

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