Giornata del ricordo: in onore degli esuli istriani e dalmati, l’Italia ed il confine orientale – Seconda Parte

Ma la slavizzazione delle terre dalmate, è avvenuta soprattutto dopo la seconda guerra mondiale. L’unica città italiana della Dalmazia, e cioè Zara subì 54 bombardamenti alleati, espressamente richiesti dagli slavi con false informazioni sulle locali ”inesistenti” presenze militari tedesche. Gli approfondimenti bibliografici, documentari e su internet, hanno posto in evidenza come: “Zara dopo aver subito fin dal 1944, in riservata anteprima storica, l’onta di una distruzione non molto dissimile per ferocia e totalità da quella di Dresda, è stata poi definitivamente mutata dalla travolgente balcanizzazione etnica abbattutasi come un ultimo bombardamento aereo sulle sue macerie ancora fumanti” (Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 1996).


Il vero scopo degli slavi era in realtà quello di far distruggere fisicamente le testimonianze romane e le caratteristiche architettoniche veneziane della città dalmata. La distruzione di monumenti significativi di una civiltà, di una nazione o di un’etnia è tipica delle guerre con sfondo o componente etnica. Recente esempio di “guerra culturale”: Il ponte di Mostar, fra le più significative testimonianze di arte civile ottomana, distrutto dall’artiglieria croata nella recente guerra di Bosnia.


Significativo il discorso pronunciato dal poeta croato Vladimir Nazor, nella Zara distrutta (che fu poi ricostruita dalle autorità jugoslave in modo irrispettoso della topografia storica) in un comizio del novembre 1944: «Spazzeremo dal nostro territorio le pietre della torre nemica distrutta e le getteremo nel mare profondo dell’oblio. Al posto di Zara distrutta sorgerà una nuova Zara, che sarà la nostra vedetta sull’Adriatico».


Molti italiani vennero perseguitati a Zara, ed il 31 ottobre del 1944, si ebbe un episodio emblematico. Il Maggiore dell’Arma, Trafficante, con qualche decina fra carabinieri, poliziotti e militari territoriali, il Viceprefetto, dottor Giacomo Vuxani, il Capo di Gabinetto della Prefettura, professor Vincenzo Fiengo avevano atteso i partigiani per concordare il trapasso dei poteri senza inutili spargimenti di sangue. Un ufficiale partigiano slavo li rassicurò che tutto si sarebbe svolto in ordine ed in pieno accordo. Un paio d’ore dopo, disarmati i militari, furono fatti prigionieri: nell’arco di pochi giorni furono tutti ammazzati. Furono eliminati specie per annegamento, tecnica favorita dal fatto che l’Adriatico lambisce e si insinua nell’abitato della città, anzitutto i leader della comunità italiana, non necessariamente fascisti. ma anche maestri elementari, bidelli, spazzini, impiegati.


Zara subì un martirio con il 90% degli edifici che venne distrutto provocando almeno 2.000 morti. Zara venne completamente occupata all’inizio di novembre del 1944 dalle truppe jugoslave, che entrarono in città il 31 ottobre 1944 ponendo fine, all’esistenza della provincia.


Si stimarono in diverse centinaia i sequestri e le deportazioni, e in circa 200 i morti o scomparsi tra la popolazione italiana della provincia durante l’occupazione militare jugoslava, convertita unilateralmente nell’annessione alla Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia ben prima della firma del trattato di pace, sebbene il riconoscimento del diritto internazionale giunse solo nel 1947.
La Famiglia Luxardo, produttrice del “Maraschino”, tuttora uno dei simboli della città, ed un suo componente, Pietro Luxardo, fu ammazzato in circostanze mai rese note. Nicolò Luxardo venne gettato in mare assieme alla moglie con una pietra al collo, secondo alcuni, annegato a colpi di remi secondo altri.
Nicolò Luxardo ha raccontato questa odissea in un libro, “Dietro gli scogli di Zara”. L’unico superstite, Giorgio, ha ricostituito a Torreglia di Padova l’azienda di famiglia, che ora viene condotta dagli eredi Luxardo. (cfr. https://www.studiober.com).


Zara è stata la città dei Paravia, quelli della casa editrice. Pier Alessandro Paravia, letterato, traduttore e mecenate italiano, professore di eloquenza presso l’Università di Torino, aveva già pubblicato una serie di studi: per lo più biografie di letterati e artisti, ma soprattutto un’apprezzata traduzione delle Lettere di Plinio il Giovane. Paravia non dimenticò mai la propria città natale, alla quale – in seguito ad una visita nel 1850 – donò nel 1855 la propria biblioteca privata, costituita da oltre diecimila volumi, perché divenisse il nucleo iniziale per una biblioteca pubblica, che in suo onore venne denominata Biblioteca Comunale Paravia. Il suo scopo però non fu solo munifico: Paravia invocava: “Studiate la vostra lingua, perché qui sta la vostra futura grandezza, è merito che nessuno può contestarvi ed è merito grande”, e perciò credette con la sua donazione di dare un forte indirizzo ai dalmati, tanto che invitò i maggiori esponenti della cultura italiana dell’epoca – con i quali intratteneva un’attivissima corrispondenza – ad offrire anch’essi dei libri. Questa biblioteca venne ospitata all’interno dell’antica loggia veneziana di Zara fino al 1938, e fin dalla sua apertura (18 agosto 1857) fu la maggiore dell’intera Dalmazia. Chiusa a causa della guerra, venne riaperta dai croati il 14 ottobre 1945 col nuovo nome di Narodna biblioteka (Biblioteca nazionale).
Nel 1909 la lingua italiana venne vietata in tutti gli edifici pubblici dalmati e gli italiani furono ufficialmente estromessi dalle amministrazioni comunali (Dizionario Enciclopedico Italiano (Vol. III, pag. 730), Roma, Ed. Istituto dell’Enciclopedia Italiana, fondata da Giovanni Treccani, 1970). Quindi anche Sebenico fu coinvolta nel processo di croatizzazione della Dalmazia avvenuto durante la dominazione austroungarica. Queste ingerenze, insieme ad altre azioni di favoreggiamento al gruppo etnico slavo ritenuto dall’impero più fedele alla corona, esasperarono la situazione andando ad alimentare le correnti più estremiste e rivoluzionarie. Abbiamo introdotto le vicende della città di Sebenico perché una figura importante della Dalmazia italiana fu, Niccolò Tommaseo, detto anche Nicolò (Sebenico, 9 ottobre 1802 – Firenze, 1º maggio 1874), che è stato un linguista, scrittore e patriota italiano. Al suo nome sono legati il Dizionario della Lingua Italiana, il Dizionario dei Sinonimi. Cospicua la sua produzione letteraria, soprattutto gli anni parigini, Dalla capitale francese si spostò in Corsica, dove con la collaborazione del magistrato e letterato bastiese Salvatore Viale, proseguì le ricerche di italianistica, contribuendo alla raccolta della copiosa tradizione orale còrsa e definendo la lingua isolana come il più puro dei dialetti italiani.


Si stabilì poi a Venezia dove continuò a pubblicare numerose opere, fra cui le prime due stesure del romanzo Fede e bellezza, considerato il suo capolavoro, precoce tentativo di romanzo psicologico. Sempre di questi anni è la pubblicazione dell’importante raccolta dei Canti popolari toscani, corsi, illirici e greci (1841-42); questo è il documento più schietto col quale l’Italia mostrava, grazie a Tommaseo, di avere decisamente compreso l’importanza scientifica delle raccolte di poesia popolare. Altrettanto importante pubblicazione sono le Scintille (1842), esempio unico di cosmopolitismo culturale dell’epoca.
Nel 1847, venne preso di mira dalla polizia asburgica, venne arrestato a seguito di alcune dichiarazioni sulla libertà di stampa, che rivendicavano il diritto di vedere applicate leggi che non la limitassero; fu liberato il 17 marzo 1848, insieme con Daniele Manin, durante l’insurrezione di Venezia contro gli austriaci.


A Sebenico, fu eretto un monumento a lui dedicato grazie ad una sottoscrizione popolare, nel periodo in cui la città era sotto il governo austro-ungarico. L’inaugurazione avvenne il 31 maggio 1896; la statua, in bronzo su una base in pietra d’Istria opera dell’artista e scultore Ettore Ximenes, ritraeva il Tommaseo in piedi in atto di meditare e fu posizionata nella piazza principale dove sorge la cattedrale, rivolta verso il mare che separava il patriota dall’amata Italia. Dopo la seconda guerra mondiale, la nuova Jugoslavia socialista decise la distruzione della statua.


Ha scritto Claudio Magris su un numero de La Lettura nel 2020: “Alla fine della Seconda guerra mondiale Tito e il suo esercito – l’unico a essersi liberato sul campo dall’occupazione nazista vennero non a liberare, come ancora si scrive in alcuni libri di storia italiani, ma a occupare Trieste e l’Istria – lasciando ancora una settimana Zagabria in mano ai tedeschi – e a combattere ferocemente non solo e non tanto fascisti e nazisti, ma anche soprattutto la Resistenza democratica, presentando con gli interessi il conto delle violenze antislave subite in passato, in un clima di odio e di terrore – si pensi alle foibe”.

Prof. Dott. Giovanni Ognissanti
Direttore Archivio Storico Sipontino

BIBLIOGRAFIA
Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Il Mulino, Bologna, 2007.
Roberta Michieli, Giuliano Zelco (a cura di), Venezia Giulia. La regione inventata, Kappavu, Udine, 2008.
Rolf Wörsdorfer, Il confine orientale. Italia e Jugoslavia dal 1915 al 1955, Il Mulino, Bologna, 2009.
Sergio Zilli, Il confine del Novecento. Ascesa e declino della frontiera orientale italiana tra prima guerra mondiale e allargamento dell’Unione Europea, in Orietta Selva, Dragan Umek, Confini nel tempo. Un viaggio nella storia dell’Alto Adriatico attraverso le carte geografiche (secc. XVI-XXI), Trieste, EUT, 2013, pp.30-43.
Enzo Bettiza, Esilio, Milano, Mondadori, 1996.
Nicolò Luxardo De Franchi, Dietro gli scogli di Zara, Leg Edizioni 1999.
Oddone Talpo, Per l’Italia, Società Dalmata di Storia Patria – Venezia, Venezia 2020
www.wikipedia.it

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