C’erano una volta i campi di concentramento a Manfredonia

(di Maria Teresa Valente ✍️)

Il 27 gennaio, anniversario dell’abbattimento dei cancelli di Auschwitz, si celebra il Giorno della Memoria in ricordo dello sterminio e delle persecuzioni del popolo ebraico e dei deportati militari e politici italiani nei campi nazisti in Italia.

Per non dimenticare. Eppure a Manfredonia in tanti hanno già dimenticato. Pochi sanno infatti che in città durante la seconda guerra mondiale furono allestiti ben due campi di concentramento. Uno era ubicato di fronte la Stazione Campagna ed ospitò un paio di centinaia di prigionieri tedeschi; l’altro fu invece un campo di concentramento per rifugiati politici, allestito presso l’ex Mattatoio.

Il primo oggi non esiste più, mentre il secondo non è cambiato affatto ed è situato nella periferia sud della città, su viale Di Vittorio (dove oggi c’è l’associazione PASER). Un pezzo di storia incastonato nella vita di tutti i giorni, ma i sipontini lo ignorano, perché mentalità comune dell’immediato dopoguerra voleva si dimenticassero le tragedie appena conclusesi.

Ai piccoli manfredoniani che negli anni ’50 chiedevano cosa nascondesse quel luogo ancora tutto recintato, gli adulti rispondevano: “un carcere”, per proteggerli da una verità che bruciava ancora gli animi. E negli anni divenne un tabù tale che poi scomparve dalla memoria collettiva.

Era il 16 giugno del 1940 quando, contro la volontà del podestà, incominciò a funzionare il campo di concentramento presso l’ex Macello. La scelta cadde su Manfredonia perché la città era ben collegata, via mare, con la colonia penale di Tremiti. Per adeguarlo furono effettuati dei lavori e lo si recintò. Il mattatoio comunale di Manfredonia appena terminato era perfetto: vi furono ricavate delle camere, attrezzati i bagni e le cucine, scavate le fognature, eretta una recinzione e la direzione fu affidata al Commissariato di Pubblica Sicurezza.

Il campo sipontino fu un posto in cui la gente veniva sorvegliata, custodita, anche se non con un regime particolarmente rigoroso, come si evince dai documenti conservati presso l’Archivio Storico di Foggia. L’unica restrizione di rilievo era che la sera chiudevano i camerini. A quanto risulta, inoltre, gli internati ebbero la possibilità di realizzare degli orticelli e c’era anche un campo di bocce, ma era vietato giocare a carte.

Alcuni dei prigionieri dopo essere stati nel campo di Manfredonia furono destinati ad Auschwitz, lì dove in maniera beffarda si accoglievano i nuovi arrivati con la scritta ‘il lavoro rende liberi’ e che invece a milioni non riassaporarono mai più la dolcezza della libertà morendo tra atroci sofferenze.

A rammentare l’esistenza del campo vi è una targa apposta il 27 gennaio del 2013 dall’Amministrazione comunale. Per non dimenticare.

Maria Teresa Valente

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