Bologna, prof accusato di molestie verso un ricercatore

Al processo di Bologna per presunte molestie sessuali e stalking, sono emerse frasi pesanti da parte di un docente a un ricercatore.

Bologna, 19 dicembre 2025 – Una vicenda che angoscia l’ambiente accademico bolognese e solleva presunte questioni di potere, consenso e molestie all’interno di un’università. Al centro della scena c’è un docente universitario di Scienze biologiche, geologiche e ambientali dell’Università di Bologna, finito sotto processo con accuse di violenza sessuale aggravata e atti persecutori nei confronti di un ricercatore che per anni aveva diretto e seguito. In aula ieri la testimonianza della presunta vittima ha ricostruito un clima di messaggi espliciti, palpeggiamenti e pressioni psicologiche che, secondo l’accusa, avrebbero portato il giovane a interrompere il proprio percorso di ricerca e lasciare l’Ateneo.

Prof accusato di molestie: da cosa parte la denuncia?

Il cuore della denuncia risiede non solo negli episodi, ma anche nelle parole usate dal docente per convincere e, secondo l’accusa, soggiogare la vittima. «Sei qui per fare la mia dama di compagnia», avrebbe scritto o detto il professore al giovane, secondo la ricostruzione del Ricercatore in aula. Una frase che non è solo offensiva nella sua dimensione sessista, ma che – nel contesto riportato – indica la percezione di un rapporto sbilanciato e inappropriato tra superiore e subordinato.

Le accuse contro il professore raccontano un crescendo di avance esplicite e comportamenti inappropriati, che sarebbero cominciati subito dopo l’arrivo a Bologna del ricercatore. Stando a quanto riferito in aula, dopo la firma del contratto di assegno di ricerca, iniziarono messaggi e contatti in cui il docente invitava il giovane – oltre che a lavorare con lui – a situazioni e relazioni sessuali, con battute allusive, inviti a “rapporti a tre e orge” e altri inviti di natura sessuale.

Secondo il racconto della presunta vittima, la situazione non si limitò a qualche battuta isolata: le avances sarebbero proseguite con palpeggiamenti, contatti fisici non consensuali e pressioni continue ripetute nel tempo. Questi comportamenti, insieme alle parole pesanti e ai messaggi espliciti, avrebbero creato un clima psicologicamente opprimente tale da compromettere la salute e l’equilibrio della persona offesa, portando alla fine il ricercatore a lasciare l’università e a sporgere denuncia formale.

Il percorso giudiziario è iniziato dopo la denuncia ai carabinieri e l’attivazione del Codice Rosso, la procedura d’urgenza prevista per i casi di violenza e molestie. In un precedente momento delle indagini, il docente era stato raggiunto da un divieto di avvicinamento con braccialetto elettronico, misura cautelare che non ha però interrotto il suo incarico in seno all’Ateneo bolognese.

In aula, la testimonianza del giovane ricercatore si è svolta con l’imputato presente, a poca distanza, mentre venivano ricostruiti giorni e mesi di presunte molestie. Il giovane ha raccontato che l’ambiente che si era venuto a creare lo aveva progressivamente isolato: oltre alle pressioni sessuali, il docente avrebbe mostrato foto di altri studenti e di lui stesso in contesti privati, aumentando la sensazione di disagio e controllo.

La difesa, rappresentata dai legali del professore, ha invece sostenuto in aula che i comportamenti contestati siano da interpretare come scambi tra adulti consenzienti, negando la natura di abuso di potere o di violenza sessuale. I legali insistono sul fatto che tanto i rapporti quanto i messaggi rientrerebbero nei confini di un dialogo tra due persone adulte, e che la vicenda dovrà essere valutata con attenzione al momento dell’istruttoria.

Questo caso ha acceso anche un dibattito più ampio sulla cultura accademica e sui rapporti di potere all’università. Nel mondo della ricerca, dove il percorso di carriera, le opportunità di pubblicazione e le borse di studio dipendono spesso dal giudizio e dalla tutela dei superiori, ogni accusa di abuso di autorità assume un peso particolare. Accade troppo spesso che il confine tra mentorship e pressione indebita si sfumi, e casi come questo sollevano interrogativi sulla protezione effettiva delle vittime e sulla responsabilità istituzionale di garantire ambienti di lavoro sicuri.

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