Un numero due del tennis scende in campo per sfidare lui, il numero uno, il divino fuoriclasse, in una partita impossibile, combattuta con le armi dell’umorismo e dell’ironia.
Immaginate un campo da tennis. Terra rossa, cemento o il manto verde di Wimbledon. Immaginate la rete tesa, gli spalti affollati. È un grande match quello che si prospetta. Il numero 2 sfida il numero 1. E questo numero 1 si chiama nientemeno che Roger. È imbattibile, inarrivabile: è la classe, la forza, la bellezza. È Dio. Ma lui, il numero 2, è pronto a sfidare quel Dio. Si infila le scarpe non proprio nuove, si sistema la divisa coordinata, non proprio all’ultima moda. E scende in campo.
Immaginate, allora, le racchette, le palline, i lungolinea, i colpi, i micidiali rovesci e le volée. Perché in scena non ci saranno. Resteranno, infatti, solo le parole, solo un lungo, divertente, ironico, dissacrante racconto. Emilio Solfrizzi è il numero 2, è lo sfidante che, con energia debordante, degna davvero di un grande tennista, si mette in gioco nella partita dell’anno, con quel Roger (Federer) modello irraggiungibile.
Scritto e diretto da Umberto Marino, cui dobbiamo alcuni capolavori dei decenni passati, Roger è la storia della fantasmagorica partita, che del tennis ha regole, tempi, nevrosi, personalità, eppure si dipana come un racconto di vita, esilarante certo, ma anche consapevolmente amaro. «Il tennis – ha spiegato Solfrizzi in un’intervista – è lo strumento per parlare d’altro. Roger, il tennis stesso, sono metafora per raccontare un pezzo di nostra umanità. Numero 2 è un uomo che vive, invecchiato e imbolsito, nell’attesa di confrontarsi con qualcuno che è nettamente, straordinariamente, più bravo, tanto da assumere i contorni di una divinità. Lo spettacolo parla di tutti noi, perché tutti siamo dei numeri 2, parla dell’uomo di fronte alla propria vita, che cade e si rialza, che si confronta con Dio e non rinuncia a vivere».