C’è un silenzio quasi sacrale attorno alle voci provenienti dal Giappone: la storica saga dei Super Sentai, madre spirituale dei Power Rangers, potrebbe chiudere definitivamente i battenti dopo cinquant’anni di onorato servizio. Un evento che segna non solo la fine di una serie televisiva, ma la conclusione simbolica di un modo di concepire l’eroismo popolare. Secondo quanto riportato da The Tokusatsu Network e ripreso da Kyodo News, la Toei Company starebbe per interrompere la produzione della saga con l’attuale “No.1 Sentai Gozyuger”, citando il progressivo calo degli introiti e un interesse sempre più flebile da parte del pubblico giovanile. Anche in Occidente, dopo “Cosmic Fury”, la Hasbro sembra intenzionata a sospendere la continuità classica dei Power Rangers per tentare un reboot che rispecchi i nuovi gusti generazionali.
Power Rangers verso la chiusura? Ecco cosa sappiamo
Dietro i rumor su una possibile “Apocalisse Power Rangers” si cela un discorso più profondo. Non è solo la fine di un franchise: è il tramonto di un intero paradigma culturale. L’eroe collettivo in spandex, con i suoi colori sgargianti e le esplosioni che sostituiscono il sangue, appartiene ormai a un’epoca che non c’è più. Eppure non è l’unico simbolo a mostrare crepe. Anche il mondo dei comics americani, dopo decenni di gloria cinematografica, sta attraversando una fase di logoramento evidente. Il Marvel Cinematic Universe, che per diciassette anni ha dominato il mercato, appare oggi come un corpo esausto, vittima di un eccesso di serializzazione, di multiversi intrecciati fino alla nausea, di battute riciclate e personaggi che non sanno più rinnovarsi. La stessa DC, incapace di un’identità coerente, ha contribuito a un senso di saturazione generale: troppi reboot, troppe versioni alternative, troppe storie che sembrano variazioni su un tema ormai consunto. Nemmeno l’Oriente, un tempo fonte inesauribile di originalità, si salva. Gli anime, che negli anni Novanta e Duemila erano sinonimo di sperimentazione e profondità narrativa, oggi vivono una fase di stanca. Le trame si ripetono con una precisione quasi industriale, i personaggi sono cloni di archetipi già consumati, e perfino in Giappone si parla apertamente di “crisi d’identità” del medium. È come se l’immaginario globale, dopo aver corso per trent’anni alla velocità della luce, avesse esaurito l’ossigeno. Il pubblico non si sorprende più, e i miti che un tempo accendevano la fantasia si sono trasformati in prodotti di consumo da algoritmi. Dentro questa decadenza diffusa, il destino dei Power Rangers assume un valore emblematico. Rappresentano un’idea di eroismo comunitario, infantile ma sincero, che oggi non trova più spazio in un mondo saturo di cinismo e ironia forzata. L’immagine dei cinque giovani in tuta, pronti a combattere contro mostri che più che spaventare fanno ridere anche i polli, non riesce più a parlare a una generazione cresciuta tra realtà aumentata e social network. Non è più questione di effetti speciali, ma di linguaggio culturale: il pubblico non cerca più la semplicità del bene contro il male, ma la complessità di una crisi esistenziale. Il declino non riguarda solo i supereroi e gli anime. Persino il wrestling, che negli anni Ottanta e Novanta era un rituale d’iniziazione per milioni di bambini e adolescenti, si è trasformato in un fenomeno stagnante. Negli Stati Uniti, patria del ring spettacolare, lo show ha perso la magia dell’illusione, quella linea sottile tra realtà e finzione che lo rendeva mitico. Oggi, tra copioni prevedibili e star usa-e-getta, il wrestling naviga in una melma anonima, incapace di rigenerarsi come intrattenimento collettivo. Ciò che un tempo era forza, teatralità e fantasia, oggi appare plastificato, privo di pathos, incapace di emozionare. In questo scenario generale, la possibile chiusura dei Power Rangers non sorprende più di tanto: è l’ennesimo segnale di un immaginario in crisi, stanco di ripetersi, incapace di trovare nuovi linguaggi. Nonostante le storie e i personaggi che popolano le saghe dei Power Rangers possano risultare altamente cringe, soprattutto agli occhi dei giovani di oggi, un aspetto positivo e, allo stesso tempo malinconico, non va trascurato. Quella dei Rangers era una narrazione semplice, onesta, fondata su valori di squadra e sacrificio, su un’innocenza narrativa che oggi sembra quasi rivoluzionaria. E forse è proprio questo il loro ultimo merito: ricordarci che prima dei multiversi, dei reboot e delle distopie seriali, c’erano storie che credevano nella luce, nel coraggio, nella purezza. Mettiamoci il cuore in pace: forse tempo degli eroi in spandex è finito, e forse è giusto così. Anche ammesso che in Giappone la saga dei Super Sentai riesca ancora a sopravvivere per inerzia o per rispetto della tradizione, in Occidente non si tratterebbe affatto di una perdita irreparabile. Come già detto, da anni simili figure non hanno più alcuna credibilità: l’eroe colorato, morale e ripetitivo, che combatte contro il “mostro della settimana”, non appartiene più a questo tempo. Il pubblico non ci crede più, e la nostalgia non basta a tenere in vita ciò che ha smesso di avere un linguaggio. Molto più onorevole chiudere con dignità, piuttosto che trascinarsi nell’indifferenza generale. Gli eroi in tutina colorata hanno fatto la loro parte, ma il mondo ha cambiato canale da un pezzo.


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