Il “Signor Giancarlo” e le Amazzoni: la gaffe che diventò mito

Nel 1995 a La Ruota della Fortuna un concorrente, Giancarlo Pelosini, trovò la sua "soluzione" con una frase destinata a divenire leggenda.

C’è un tipo di immortalità molto italiana: non passa dai monumenti, ma dalle repliche, dai racconti a cena e, oggi, dai meme. Il “Signor Giancarlo” appartiene a questa specie rara.
Perché in pochi secondi ha fatto qualcosa che la TV generalista prova di solito a evitare: ha reso visibile il cortocircuito tra lingua, doppi sensi e pubblico. Era il marzo 1995, La Ruota della Fortuna, Mike Bongiorno, atmosfera da quiz “familiare”. E poi quella frase sulle Amazzoni, con una parola mancante che era quasi una trappola semantica.


Lui la risolve “sbagliando” in modo perfetto: «Vinsero le battaglie grazie alla loro figa» invece di “foga”. Da lì, la scena vive due vite: la prima in studio (risate, imbarazzo, disciplina bongiorniana), la seconda anni dopo online, dove diventa un’icona pop e una specie di filosofia spiccia: meglio la gloria eterna che il montepremi. E a un certo punto, inevitabile, il personaggio torna in TV per raccontarsela addosso, ospite di Massimo Giletti a Non è l’Arena. Quello che segue è un dossier “a grana fine”: cosa accadde davvero, perché funzionò così bene, e come un concorrente qualunque si trasformò in un reperto culturale vivente.

Chi è il “Signor Giancarlo”: dall’anonimato al nome e cognome

Per molto tempo è rimasto “il concorrente baffuto” o “il Signor Giancarlo”, come se fosse un personaggio di commedia più che una persona reale.
Le ricostruzioni giornalistiche lo identificano come Giancarlo Pelosini, legato a Rosignano Solvay (Livorno) e diventato famoso, suo malgrado, prima attraverso i passaggi televisivi e poi grazie alla circolazione social del filmato. Un dettaglio che racconta già il tipo umano: per partecipare al programma, secondo interviste recenti, Pelosini insistette a lungo con le candidature, arrivando a mandare molte lettere prima di essere richiamato. È un’ossessione “pre-digitale”: niente form online, ma solo carta, pazienza e caparbietà. Ed è anche uno dei motivi per cui la storia piace: perché nasce in un’Italia televisiva analogica e si reincarna in un’Italia digitale.

La frase sulle Amazzoni e la parola che cambia tutto

L’ossatura dell’episodio è semplice, quasi didattica. In un gioco finale basato sul completamento di una frase, resta da sciogliere un ultimo nodo: una parola. La soluzione corretta è “foga” (slancio, impeto).
Pelosini pronuncia invece “figa”, che in italiano colloquiale è un termine volgare riferito all’organo sessuale femminile, ma usato anche come intercalare o come sinonimo gergale di “fortuna”, “cosa fantastica”, “furbizia”, “vantaggio” (dipende da regione e contesto).

Il risultato è una frase che sembra insieme assurda e “quasi plausibile” se la prendi come battuta: «Vinsero le battaglie grazie alla loro figa».
Ed è proprio qui il segreto: non è una parolaccia buttata a caso; è una parolaccia incastrata dentro una frase storicizzante (“le Amazzoni”, “le battaglie”), quindi con un contrasto comico violentissimo. Nelle ricostruzioni, Pelosini sostiene spesso due idee-chiave. La prima: non fu un errore ingenuo, ma una scelta sul filo tra convinzione e “istinto comico”.
La seconda: lui continua a dire che, a suo modo, “figa” gli sembrava perfino sensata in quel contesto, come se avesse attribuito alla parola un significato “simbolico” legato al fatto che le Amazzoni fossero donne guerriere.

Mike Bongiorno, il pubblico e l’effetto domino

Se oggi ricordiamo quella scena non è solo per la parola, ma per la coreografia emotiva che la TV di Mike sapeva generare: tensione, aspettativa, correzione morale, risata trattenuta e poi liberata.

Le cronache dell’episodio insistono su un punto: la parola “sbagliata” ha un costo. Pelosini stesso racconta che quel giorno perse una parte del premio, diventata nella memoria collettiva “la risata costata 8 milioni (di lire)”. Questo dettaglio è narrativamente potentissimo, perché introduce la morale: non è una semplice uscita; è una scelta che “paga” e quindi acquista valore mitico.

In più, Mike Bongiorno era l’uomo perfetto per rendere memorabile la cosa. Conduceva con un’autorità gentile ma ferrea: quando qualcosa usciva dal seminato, lo si sentiva subito. Quella frizione tra “TV per famiglie” e “lingua che scappa” crea l’energia della scena.

Un incidente linguistico che diventa cultura pop

Dal punto di vista linguistico, l’episodio è un gioiellino di caos controllato: “foga” e “figa” sono parole vicine per suono, lontane per registro. Basta una vocale e passi da un italiano neutro a un gergo esplicito.
È la dimostrazione perfetta di quanto la lingua italiana sia sensibile alle vocali, e di come il doppio senso sia spesso una questione microscopica.

Ma c’è di più: la frase “vinsero le battaglie grazie alla loro foga” è già costruita come enunciato “epico”. Inserire una parola di registro basso la trasforma in una parodia istantanea della retorica storica.
Ecco perché, anche fuori contesto, fa ridere: la battuta non ha bisogno del quiz. Vive da sola.

Dal 1995 ai social: la seconda nascita del Signor Giancarlo

Per anni quell’episodio resta un ricordo televisivo, qualcosa che gira nelle chiacchiere e nelle raccolte di momenti cult.
Poi succede la cosa tipica dell’era Internet: il filmato ricompare, viene spezzettato, rilanciato, commentato, trasformato in meme, e il concorrente diventa un personaggio “di rete”.
Diversi articoli sottolineano proprio questo scarto: la fama vera arriva molto dopo, quando la clip inizia a circolare come reperto condivisibile. In questa seconda vita, “Giancarlo” non è più solo l’uomo della gaffe: diventa una maschera comica e, insieme, una figura quasi tenera. Il pubblico online tende a trattarlo con una specie di affetto ironico: quello che si riserva ai personaggi che, senza volerlo, ti regalano un momento di libertà.

Ed è qui che nasce anche la lettura “filosofica” della storia: perdere soldi per diventare eterno. Un’idea che si trova ripetuta nelle ricostruzioni e nelle citazioni che circolano attorno al caso.

L’intervista del 2019 e la versione di Pelosini: “Rifarei tutto”

Nel 2019 la storia torna sui giornali con un taglio più narrativo: rintracciare l’uomo dietro il meme e farlo parlare. In quella fase emerge con chiarezza la postura del protagonista: nessun pentimento, anzi una rivendicazione. Pelosini viene riportato mentre dice che rifarebbe tutto e che, in qualche modo, continua a considerare la sua risposta “giusta”. Questo elemento è decisivo perché cementa il personaggio: se lui si fosse vergognato, la storia avrebbe assunto un tono di “figuraccia”. Invece, presentandola come un gesto spontaneo e quasi inevitabile, la trasforma in un atto di identità. E qui entra un ingrediente molto italiano: l’orgoglio regionale, l’idea che una certa prontezza linguistica (e un certo coraggio) siano quasi una cifra culturale.

Il ritorno in TV: Pelosini da Massimo Giletti a “Non è l’Arena”

Il passaggio successivo è la “legittimazione televisiva” della fama social: quando un personaggio nato (o rinato) online viene richiamato in un talk per commentare se stesso.
Pelosini compare a Non è l’Arena, talk di LA7 condotto da Massimo Giletti, in una puntata dedicata alle gaffe. Le cronache collocano l’ospitata nella puntata di domenica 9 febbraio 2020, dove Giancarlo racconta di nuovo l’episodio, ribadendo due cose che ormai sono il suo “canone”:
ha perso “8 milioni”, e la moglie “un po’ si è arrabbiata”, anche se il bilancio complessivo della sua partecipazione non sarebbe stato disastroso. Quel segmento, a livello mediatico, ha una funzione precisa: chiudere il cerchio. La gaffe non è più solo un momento rubato e ricaricato su YouTube: è una storia raccontata dal protagonista dentro una trasmissione che vive di narrazioni, memoria, attualità e costume. In altre parole, la TV ingloba il meme e lo trasforma in “aneddoto nazionale”.

La dimensione economica e morale

Molte “gaffe” televisive muoiono in fretta. Questa no, perché ha un prezzo dichiarato.
Nella mitologia del caso, gli “8 milioni” diventano l’equivalente narrativo di una cicatrice: la prova che l’evento non è solo comico, ma anche tragicamente concreto. È un meccanismo antico: l’eroe comico non è tale se non sacrifica qualcosa. E qui il sacrificio è perfetto perché è misurabile e quotidiano: soldi, non sangue. In più, nel racconto pubblico, la cifra viene convertita in una valuta emotiva: “una risata che vale più del denaro”. È una morale facile, quasi da favola, e proprio per questo si stampa nella memoria.

2025: trent’anni dopo, la storia non muore (anzi si aggiorna)

Nel 2025, a trent’anni dall’episodio, tornano nuove interviste e nuovi pezzi che ribadiscono quanto la vicenda sia ancora viva nell’immaginario collettivo. Questa persistenza è interessante perché dice qualcosa sulla memoria mediatica italiana: non conserva tutto, conserva le scene che contengono una formula. E quella formula, nel caso del Signor Giancarlo, è micidiale: un quiz familiare + una parola tabù + un conduttore simbolo + un costo economico + la resurrezione online + il ritorno in talk.

Perché ci fa ancora ridere

Dietro la risata non c’è solo volgarità. C’è un patto culturale: il pubblico sa che la TV generalista impone un galateo linguistico, e quindi prova un piacere quasi infantile quando quel galateo si rompe.
Nel 1995 quella rottura era più “scandalosa” di oggi, perché la TV era molto più centrale e più sorvegliata come spazio comune.
Oggi, rivedendola, ridiamo anche per nostalgia: non solo della battuta, ma di un’epoca in cui bastava una vocale sbagliata per far “impazzire lo studio”.

In più, la scena offre un conforto strano: mostra che l’imprevisto esiste ancora. Che non tutto è scritto. Ed è uno dei motivi per cui, anche in un ecosistema iper-prodotto e iper-editato, questi momenti sopravvivono come fossili luminosi.

Il Signor Giancarlo come personaggio

Il punto più affascinante, da dossier, è che Pelosini viene letto in modi diversi a seconda di chi guarda.
Per alcuni è l’innocente travolto dal doppio senso.
Per altri è il furbo che capisce perfettamente e decide di diventare leggenda.
Per altri ancora è una maschera comica “toscana” (nel senso stereotipico del termine: battuta pronta, gusto per lo sberleffo).

La verità, probabilmente, è nel mezzo: una scelta fatta in tempo reale, poi razionalizzata, poi trasformata in racconto. Ed è così che nascono i miti mediatici: non come bugie, ma come storie che si assestano.

Il caso del Signor Giancarlo è una piccola lezione di antropologia italiana.
Mostra come una comunità mediatica costruisce mito da un incidente minimo.
Mostra come la lingua, in TV, non è solo strumento: è detonatore.
E mostra anche un paradosso divertente: quella frase nasce in un contesto dove si dovrebbe “parlare bene”, e sopravvive proprio perché parla male nel modo più teatralmente efficace.

E poi, se vogliamo dirla in modo spietato ma onesto: non è tanto la “parolaccia” ad aver vinto. È la forma. È l’istante perfetto. È l’umanità un po’ imbarazzata di chi capisce subito di aver messo il dito nella presa, e però ormai la scossa è partita e il pubblico sta già ridendo.

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