Caro amico ti scrivo: in ricordo del dottor Fabio Rubino

Ricorre in questi giorni il trigesimo della scomparsa di Fabio Rubino. Ucciso dal coronavirus mentre faceva il suo lavoro per combattere quella infame malattia. Uno dei tanti martiri tra gli operatori sanitari e tra i medici in particolare. Una delle tantissime vittime di questa terribile pandemia, che ha fatto diventare una routine quotidiana il conteggio dei morti, come se la fine di tante esistente potesse ridursi ad un semplice esercizio di statistica. Però quando una persona la conosci, ci hai vissuto insieme, hai condiviso con lui momenti indimenticabili della tua vita, è diverso. Ti fa avere la consapevolezza che la malattia non è qualcosa che riguarda solo gli altri, ma anche te stesso, e te ne fa comprendere meglio la gravità, la portata devastante. Poi te la fa detestare ancora di più, perché non ha cambiato solo il tuo vivere quotidiano, ti ha strappato via qualcosa che non potrai più riavere.


“Eravamo amici, con Fabio, facevamo parte di quella che un tempo si chiamava comitiva. Noi ragazzi figli dei mitici anni sessanta ci organizzavamo così. Allora non c’erano i telefonini, la socialità era garantita dal numero. C’erano comitive di decine e decine di persone, tutte avevano un punto ed un orario di ritrovo. La nostra comitiva stava in villa, in quello che chiamavamo il viale Tredicello, dove c’era l’edicola del castello. Tutti i giorni, ad una certa ora, al muretto, non solo d’estate, anzi. D’estate era più facile incontrarsi al mare. Ci vedevamo la sera, dopo lo studio, a parte la domenica, quando c’era anche l’appuntamento mattutino, rigorosamente dopo la messa, e fino allo scoccare dell’ora dei maccheroni, perché il pranzo in famiglia alla domenica era uno dei riti di cui, purtroppo, si è un po’ persa la sacralità.2


“Eravamo una banda di matti, come tutti gli adolescenti. Ci piaceva ridere e scherzare, divertirci in tutti i modi possibili, spesso in maniera chiassosa, qualche volta superavamo pure la misura. Fabio no, lui era una persona estremamente equilibrata, era calmo, sempre gentile, quasi serafico. Non credo di averlo mai sentito parlare in dialetto, e non perché non lo conoscesse bene, lui era sipontino doc. Credo fosse una forma di educazione, la sua. Amava la musica, per tradizione di famiglia, le note musicali gli scorrevano nel sangue assieme ai globuli rossi. Sarebbe potuto diventare professore d’orchestra tranquillamente, ma lui aveva scelto la medicina fin da ragazzo, era quello il suo talento.”


“Dopo il liceo, ci fu la diaspora. Tutti partirono per l’università, e quasi tutti restarono fuori a lavorare, dopo la laurea. Lo stesso avvenne per Fabio. I primi anni continuammo a vederci d’estate, al tempo delle ferie, poi pian piano sempre meno. Per molto tempo abbiamo continuato a frequentarci in occasione della pasquetta, una specie di ritrovo collettivo. Bosco Quarto, Macchia, la Montagna, erano i nostri luoghi preferiti. Una volta scendemmo a Vignanotica con le macchine, non c’era ancora la strada asfaltata, e ritornare su fu una autentica impresa.”


“Ultimamente ci incontravamo solo ai funerali e nelle feste comandate, Pasqua e Natale, principalmente. L’ultima volta che l’ho visto è stato un fugace incontro. Gli feci la solita domanda, il che-te-ne-fai di circostanza, e lui con la sua solita modestia mi disse che lavorava in Lombardia. In realtà era primario, insegnava all’Università ed era considerato un luminare nel suo campo. Faceva anche molto volontariato, per aiutare gli ammalati che si trovavano a fine vita e le loro famiglie. Io avevo mia cognata che aveva il cancro in uno stadio terminale, e lui mi fece capire con pochissime parole e con grande umanità l’importanza di migliorare la qualità della vita delle persone in quella fase. Fino ad allora avevo considerato i palliativisti come dei medici sfigati, perché non hanno mai la soddisfazione di vedere un loro paziente guarito. Grazie a quella esperienza e a quel brevissimo colloquio ho compreso cosa vuol dire “vivi ogni giorno come se fosse l’ultimo della tua vita”, perché ogni giorno della vita merita di essere vissuto. Al meglio possibile, aggiungo. Per questo sono così importanti anche i medici come Fabio.”


“È stato uno strano scherzo del destino, perdere Fabio il giorno di Pasqua, la festa di cui ho i ricordi più vivi con lui. Non abbiamo potuto celebrare degnamente neppure il suo funerale, salutarlo per l’ultima volta, ricevere la consolazione di una preghiera collettiva per elaborare il lutto. Proprio per Fabio, che ricordo come un uomo dalla grande fede. Però già me l’immagino, la scena. Lui che arriva nel Paradiso, tutti i malati che lui ha accompagnato al trapasso in piedi che applaudono, lo ringraziano e si spostano per farlo passare. E lui tra due ali di folla con le ali che, imbarazzatissimo, avanza, con la sua calma. Poi incontra Andrea, un altro amico della comitiva che lo ha preceduto, tre anni fa, che gli dice: “Vai, sbrigati, ti aspettano”. Lui si sentirà un po’ meno a disagio, arriverà al cospetto di San Pietro, che gli consegnerà l’encomio che merita. Arrossendo, cercherà di giustificare le sue debolezze terrene, ma il Principe degli Apostoli gli batterà la mano sulla spalla e gli dirà: “Muoviti, so già tutto, cammina! Qui di medici non abbiamo bisogno, però un buon musicista nel coro degli Angeli ci può far comodo…”.
Ciao Fabio.

Matteo Borgia

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